Lo scrittore ed ex magistrato barese Gianrico Carofiglio è in libreria con “La nuova manomissione delle parole”, versione riscritta di un testo apparso qualche anno fa, in cui analizza sei parole pilastro del lessico civile: vergogna, giustizia, ribellione, bellezza, scelta e popolo. «Ma, contemporaneamente, si riferisce al fatto che parlando non solo facciamo a pezzi le parole, ma le rimontiamo per dare loro un senso nuovo, liberandole così dai vincoli delle convenzioni verbali in cui sono costrette e rendendole più nostre. Solo dopo averle manomesse, smontate e rimontate, possiamo usare quindi le parole per raccontare storie efficaci e renderle strumento capace di interpretare le nuove torsioni della nostra lingua».
Lei dice che se non si possono nominare le emozioni non si ha contatto con la realtà, è così?
«Esatto. Nel libro si parla di un antropologo americano che, analizzando il perché a Tahiti ci fosse il tasso di suicidi più alto al mondo, scoprì che nella lingua del posto non esistevano termini per descrivere il dolore. La sofferenza veniva quindi provata, ma, non esistendo un lessico specifico per narrarla, non poteva essere analizzata e superata. Questo portava in numerosi casi al cortocircuito emotivo che induceva al suicidio».
Quindi ritiene che le parole abbiano il potere di modificare la realtà?
«Proprio così. Esistono studi scientifici sul potere costitutivo delle parole. Qualche anno fa un professore di un’università californiana ha sottoposto a dei volontari delle fotografie con espressioni fortemente negative e poi ha misurato i parametri vitali e verificato che parte del cervello si attivasse. Si notava una spiccata attività dell’amigdala, ghiandola deputata alle emozioni primarie come la paura. Quando veniva chiesto ai volontari di nominare la sensazione e loro dicevano “rabbia”, “terrore”, “dolore” ecco che l’attività cerebrale si spostava in un’altra parte del cervello, deputata alle attività razionali e i parametri vitali si placavano. Questa è solo una delle dimostrazioni di come la capacità di nominare le emozioni ci consenta di dominare le sensazioni negative e di governare il reale».
Recentemente è stato ospite alle Fondazione Mirafiore e ha parlato della “vergogna” come di un meccanismo in grado di salvarci.
«Sì. La capacità di provare vergogna ha l’importante funzione di proteggere la salute morale dell’uomo, come il dolore è in grado di preservarne la salute fisica. La capacità di vergognarsi permette non solo di correggere l’errore ma di evolvere rispetto ad un comportamento che viola il codice morale. Allo stesso tempo, però, non è semplice ammettere con se stessi la propria fallacità. In alcune patologie la capacità di provare dolore risulta compromessa e ci si accorge di aver contratto una malattia, magari grave, troppo tardi per l’assenza di sintomi. Per la mancanza di vergogna esiste lo stesso pericolo, il non provarla conduce a un persistere nella malattia morale, a causa di una mancanza di campanelli di allarme».
Lei ha parlato anche del disagio come di un altro sentimento fondamentale.
«Il filosofo tedesco Theodor Adorno sosteneva che la forma più alta di moralità è non sentirsi mai a casa, nemmeno a casa propria. Sono d’accordo. Bisogna sempre essere un po’ fuori posto. Mi spiego. In un mondo caratterizzato dalle ingiustizie abbiamo il dovere di non sentirci a nostro agio. Il che non significa che non dobbiamo godere delle occasioni di felicità. Non bisogna però darle per scontate e rimanere consapevoli sempre del nostro dovere di responsabilità verso gli altri esseri umani».
Tornando alle parole tout court, crede che in italiano ne manchi qualcuna?
«Ogni lingua ha una ricchezza semantica propria, legata alla storia e alla cultura. Esistono espressioni inglesi che riassumono meglio un concetto rispetto alla nostra lingua ma è pur vero anche il contrario. Ogni lingua è l’espressione del popolo che l’ha plasmata, non ne parlerei i termini di competizione».
Lei è un amante delle nostre colline, quali sono le tre parole che userebbe per descrivere le colline delle Langhe?
«La prima che mi viene in mente è orizzonti. Ogni volta mi trovo davanti al paesaggio con i vigneti che salgono verso l’alto per poi scendere e nascondere quello che c’è dietro: mi torna in mente la poesia “L’infinito” di Giacomo Leopardi. Per questo userei orizzonti, infinito e mistero».