Leggiamo o, comunque, veniamo a conoscenza di un forte malessere nei giovani: “paura”, molta paura, addirittura pensieri di morte, “attacchi” al corpo.
Insieme ai numeri dei contagi e dei vaccini, che sollecitano direttamente ognuno di noi sulla salute e sull’incolumità fisica, esiste un altro numero: quello dei ragazzi in difficoltà.
Gli adolescenti esprimono il loro malessere nei contesti a loro propri: la scuola e la casa. Difficilmente ci dicono di star male quando sono con i loro amici, per chi ne ha.
Viene da pensare che se i giovani fossero un libro, questo risulterebbe poco letto o letto in fretta, saltando pagine, per arrivare in fretta alla fine.
Eppure, tra queste righe, emergono molti dei motivi del loro disagio, che esisteva già ma che è aumentato nell’intensità e nella frequenza durante la pandemia.
Parlano di incertezza, di ricerca di scopo nella vita, parlano di comprensione e accoglienza da parte degli adulti, parlano di noia e solitudine.
Cercano contatti sulla rete, nei social, cercano consensi nei “like”, nei “follower”, si confrontano con i pari e raramente interpellano gli adulti.
Se già prima c’era una “fatica” relazionale tra giovani e adulti, com’è possibile che questa si dissolva proprio ora che anche noi adulti siamo spaventati, immersi in qualcosa che è più grande di noi, come confermano i numeri che ultimante sono tornati alla ribalta dei telegiornali?
Ci siamo confrontati davanti a un tè, in amicizia, cercando di non fuggire da questa realtà anche noi, per trovare il nostro posto, se non altro per essere cittadini con una coscienza civica e cercare di fare la nostra parte. Domande che pertanto rivolgiamo anche a chi leggerà.
Sentiamo spesso demonizzare la rete e i social e l’iperconnessione dei giovani. Ma questi spazi sono diventati la loro piazza, i portici dove noi facevamo le “vasche” per incontrarci, per vedere chi ci piaceva, scambiare occhiate, scappare via rossi di vergogna, organizzare feste, parlare di cose serie.
Sapevamo che non potevamo stare tutto il tempo che avremmo voluto in piazza e tornavamo a casa dove c’erano lo studio, il lavoro di aiuto alla famiglia, il tempo con i genitori. Tutti stavamo lì in quello che ritenevamo essere il nostro posto.
Non era sempre facile, ma stavamo lì, magari cercando di trovare presto un’occupazione per gestire la nostra vita con maggiore autonomia.
Non è più così e non serve chiederci il perché. È superato quel mondo. È possibile che questi giovani paghino le contraddizioni di una transizione anche culturale e sociale. Che cosa possiamo scorgere in questo nuovo scenario? Le domande che vorremmo fare ai giovani abbiamo pensato di farle prima a noi. Come stiamo? Abitiamo noi stessi o siamo in fuga da noi, attraverso tante attività e ritmi intensi? Ci sentiamo abitanti della nostra vita o estranei? Ci sentiamo pressati dai tanti modelli di vita, di aspetto, di successo, di performance?
Ce la godiamo un po’ questa vita o passiamo giorno dopo giorno pieni di cose da fare, per ritrovarci vecchi senza chiaramente volerlo essere?
E ancora: quale scopo abbiamo voluto perseguire nella nostra esistenza?
Ce l’abbiamo il tempo per fermarci e gustare il presente? E anche per stare in silenzio o per non essere connessi? Siamo davvero coerenti in ciò che diciamo e facciamo quotidianamente?
Rivolgiamo queste domande anche a voi, perché mettersi all’ascolto dei giovani significa pure sentire cose che non vogliamo sentire, cose che ci interrogano, ci fanno sentire giudicati. Prepariamoci.