Covid, a che punto siamo? Per provare a chiarire qualche dubbio ci siamo rivolti allo specialista: Giovanni Di Perri, direttore del Dipartimento di Malattie Infettive all’ospedale torinese “Amedeo di Savoia”.
Professore, ci aiuti a interpretare i dati di questi giorni.
«Della variante Delta non si è detto abbastanza, ovvero che rispetto alle precedenti è stata più trasmissibile e virulenta. A parità di condizioni era più facile che, nella fascia 40-50 anni, quelli non colpiti nella prima e seconda ondata fossero poi contagiati. Ora vediamo “l’invernalizzazione” della tattica italiana di puntare molto sui vaccini. Anche se è stata la tattica migliore in Europa: l’arrivo dell’inverno con le scuole e tutto il resto ha comportato un rialzo dei contagi, che peraltro era già stato preventivato prima che la variante Omicron venisse identificata. Se anche ci fosse stata solo la Delta, avremmo avuto l’apice dei casi già nelle feste».
Con queste premesse, dobbiamo aspettarci il picco a breve?
«Purtroppo la nuova variante ha un grado di contagiosità estremo che nessuno credo potesse prevedere. Devo dire anche che, al momento, si tratta soprattutto di casi asintomatici. Ma l’incognita resta: se questa Omicron è davvero meno virulenta, in che misura va a gravare sugli ospedali? Quando avremo smaltito Delta e resterà solo Omicron, tra un mese, ce ne renderemo conto. La speranza è che impatti meno e che, a onta dei grandi numeri, si possa compensare come sempre con le strutture sanitarie».
Qualcosa in più di una speranza, forse?
«Non c’è alcuna certezza, ma i dati dimostrano che abbiamo meno ricoveri. Si dice sia perché ci siamo vaccinati, ma in Scozia si era visto che la Delta faceva ricoverare di più: questo l’unico confronto che è stato possibile fare. La speranza è che Omicron incida meno sulla malattia. Poi ci si è tamponati molto per conto proprio, 1 milione e 200mila tamponi, gli ospedali hanno numeri che sono saliti, però i ricoveri sono quasi tutti da Delta».
L’imprevedibilità è il punto di forza del Covid?
«La difficoltà sta nel prevedere un’evoluzione, non bisogna ignorare che la terza dose protegge, però urge un vaccino rinnovato sulle nuove varianti, quello attuale è purtroppo vecchio, pensato per il primo virus. Come già per l’influenza, dove ogni anno rinnoviamo il vaccino, la strategia sarà di contenimento a lungo termine, sulla base di un attento aggiornamento molecolare del vaccino stesso».
La cosiddetta Flurona (influenza più Covid) rappresenta una minaccia ulteriore?
«C’è qualche caso ma non è un fenomeno al momento rilevante. Quando hai un’infezione delle vie respiratorie, è difficile subirne un’altra, perché la tua reattività innata fa da schermo».
Quanto è reale il rischio di effetti permanenti da Covid?
«A lungo termine abbiamo osservato a volte, specie per gli anziani, un ritardo nel recupero della competenza respiratoria, effetti nella sfera neurologica, perdita di memoria a breve termine e un impaccio generale in chi ha subito la malattia in forma più grave».
Approva l’introduzione dell’obbligo vaccinale per gli over 50?
«In questa fase più ci si vaccina meglio è, almeno finché non si trova uno strumento migliore. Ora il numero delle infezioni è elevatissimo, ci si contagia maggiormente e può capitare anche a chi l’infezione l’ha già avuta. Questo è il punto. È un virus particolare, troppo diverso dal primo».
Vaccino per i bambini: ci può rassicurare sul fatto che i vantaggi siano superiori ai rischi?
«Senza dubbio. I bambini a cinque anni hanno già in corpo un baule di vaccini che non sono genetici, ne hanno quattro con virus vivi, attenuati, cioè nel corpo hanno il virus vero, altro che Rna messaggero: è un virus che immunizza, ovvio, ma con microrganismi in replicazione. Nulla di tutto ciò con il vaccino anti Covid. Nessun problema».
Può smentire anche le paure di chi teme conseguenze dal vaccino perché genetico?
«Assolutamente sì. Che poi i vaccini a Dna e a vettore virale non ci sono più, vedi AstraZeneca. L’Rna messaggero viene immediatamente tradotto dall’apparato della cellula e cancellato. Capisco che siano questioni da addetti ai lavori, ma non è giustificale alcun allarmismo».
Cosa può rappresentare il vaccino proteico Novavax?
«Magari, in virtù del sospetto che lei riportava, potrebbe in qualche modo convincere qualcuno in più a vaccinarsi. Però anche questo vaccino nasce vecchio, è stato impostato sul primo virus e non rappresenta ancora la risposta che aspettiamo. Sarebbe un valore aggiunto, se non ci fosse di mezzo Omicron».
E l’italiano Covid-eVax?
«Siamo in attesa di sviluppi: la Corte dei Conti purtroppo ne aveva bocciato il finanziamento. Avevamo dati incoraggianti sul grado di immunizzazione, però sarebbe stato a Dna anche quello».
Ora ci sono le pillole Merck…
«Da pochi giorni è in distribuzione la Molnupiravir, che in fase di sperimentazione ha dato risultati meno soddisfacenti di quanto si pensasse ma che garantisce una riduzione dei sintomi al 30 per cento. Ha un curriculum migliore il Paxlovid della Pfizer che è atteso entro quattro settimane. E poi c’è una novità…».
Quale?
«Qualcosa che abbiamo messo in opera aprendo una sorta di “day hospital Covid”: l’uso anticipato del farmaco Remdesivir. È connesso ai primissimi giorni della malattia, con tre infusioni ha circa l’80 per cento di potenziale nel ridurre i rischi di ospedalizzazione. Certo, è scomodo: in via endovenosa e richiede logisticamente che si vada in ospedale. Però, è una risorsa».