I campioni dividono sempre. Amati oppure osteggiati, inseriti in rivalità sportive talvolta destinate alla leggenda: Coppi e Bartali, Hunt e Lauda, Ronaldo e Messi. A volte attraversano il tempo come la DeLorean di “Ritorno al futuro”, così ci ritroviamo a dibattere se sia stato più grande Pelè o Maradona. A volte dividono e basta, spaccano un popolo che non è fatto solo di tifosi. Dividono per scelte, atteggiamento e carattere. Per politica e stile di vita. Per il coraggio, o l’avventatezza, di prendere una posizione aggirando l’ignavia calcolata di chi non vuole incrinare una popolarità trasversale. Novak Djokovic divide in un mondo già diviso, con il tennis semplicemente sullo sfondo, bandiera dei “no vax” che lo eleggono modello di libertà rivendicata e cattivo esempio della maggioranza che crede nel vaccino e auspica un pensiero comune, uniforme ai suggerimenti della scienza.
Oscillano, le reazioni. Sballottate dall’evolversi del caso. Indignazione dei “vax” quando il tennista serbo sbarca a Melbourne per giocare gli Australian Open, sventolando un’esenzione medica che ai più sembra un escamotage, rabbia “no vax” e sollievo loro quando la polizia di frontiera lo ferma, stati d’animo opposti quando il giudice ribalta il verdetto e rovesciati ancora quando il Ministro decreta l’espulsione. Gente in piazza, cartelli e cori, idolatria e colpevolizzazione, ammirazione e strali. Con eccessi che sconfinano nel grottesco, fino a tracciare paragoni fuori luogo: «Cercano di crocifiggerlo come hanno fatto con Gesù», dice il papà, convinto che la politica abbia divorato lo sport e che sia stato attaccato, attraverso il figlio, l’emblema del “mondo libero”. È questo il punto. Libero o miope? E lui icona o cattivo condottiero? Eroe o nemico? Voce di una minoranza confusa e dannosa o baluardo di scelte libere? Divisioni così nette da spedire in secondo piano perfino sospetti gravi e meritevoli di chiarimento, in primis la veridicità del test di positività presentato per ottenere l’esenzione.
Noi è su questo che vogliamo luce, perché la scelta di non vaccinarsi, cui pure siamo contrari, può anche essere compresa, ma il sotterfugio non ha mai giustificazione. Attorno, c’è chi l’invita a tener duro, a resistere contro tutto e tutti, e chi sogna una conversione e un gesto clamoroso, la vaccinazione pubblica non come mezzo per rimanere protagonista in campo, ma come scelta convinta di un campione che riflette su se stesso e sul particolare momento del mondo. Forse, alla fine, la verità più semplice è quella di Rafa Nadal, che premette di credere nella medicina e di ritenere il vaccino opportuno, e non discute il punto di vista, ma pretende il rispetto delle regole: «Ognuno fa le sue scelte, poi però deve aspettarsi le conseguenze». In questo caso l’esclusione da un torneo che avrebbe potuto dorare ancora di più un palmares straordinario. “Se l’è voluta”, dicono i tanti allineati allo spagnolo, “è vittima di un’ingiustizia”, ribattono dal fronte opposto. Noi concludiamo che avremmo apprezzato la coerenza di rinunciare agli Australian Open dopo la scelta “no vax”, come d’altro canto hanno fatto il francese Herbert e l’americano Sandgren: non possiamo invece perdonare il tentativo, per altro apparso maldestro, di aggirare le regole.