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«Vi porto dentro il lavoro di un vero procuratore»

Dopo una vita in Magistratura, il torinese Giorgio Vìtari si è dato alla scrittura di gialli

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Il protagonista, Fran­cesco Ròtari, è uno di quelli a cui ci si affeziona subito; le storie di cui è protagonista sono ricche di dettagli che consentono al lettore di immergersi nel racconto come fosse un testimone oculare. Merito delle qualità letterarie e del vissuto dell’autore, Giorgio Vìtari, una vita passata in magistratura, ricoprendo anche gli incarichi di sostituto procuratore a Torino, quindi procuratore della Repubblica a Ivrea, Vercelli e Asti, infine avvocato generale presso la Procura generale di Torino. Nelle scorse settimane è uscito il terzo libro con protagonista il pubblico ministero Francesco Rò­tari. Ne parliamo con l’autore.

Dottor Vìtari, la sua esperienza personale deve essere stata fondamentale per la scrittura dei suoi primi tre libri…
«Il primo romanzo è apertamente autobiografico, racconta fatti realmente accaduti e indagini svolte davvero, anche se romanzate. Che non significa inventate, ma adattate in particolar modo nei tempi: quel che nel romanzo avviene in pochi giorni, ha richiesto in realtà tempi molto più lunghi: se tu chiedi a una banca che ti mandi un estratto conto magari devi aspettare tre mesi…».

Questo, paradossalmente, forse è uno svantaggio di chi è competente: un autore meno informato si sarebbe posto meno problemi a far pervenire a stretto giro la risposta alla richiesta di un estratto conto…
«In effetti l’unico artificio che mi sono concesso è quello temporale. Tutto quello che scrivo vado a verificarlo, sono molto attento da questo punto di vista. Se descrivo un dato negozio fatto in un certo modo, è perché sono andato a controllare ed è fatto proprio in quel modo… Per il resto la mia scommessa è stata descrivere la realtà di quello che avviene nella stanza del Procuratore della Repubblica. È come se io riservassi al lettore una poltroncina lì dentro. La maggioranza dei polizieschi è inverosimile nella descrizione di quello che capita in una Procura, nei rapporti tra magistrati e polizia, fra colleghi, col personale. Io, invece, mi sforzo di descriverli per come sono, cercando di fare in modo che non appaia noioso. Spero possa anche avvicinare un po’ l’opinione pubblica a quella che è la vita di un procuratore».

Risulta particolarmente ac­curata anche la ricostruzione delle ambientazioni, non semplici scenari, ma veri e propri personaggi delle sue storie.
«Spero di poter dire sì per tutti i romanzi. Sicuramente è così per il primo, che è ambientato a Torino nell’83. Per scriverlo ho fatto un’operazione un po’ nostalgica: ho passato un mese alla Biblioteca Nazionale a sfogliare i quotidiani giorno per giorno per ricostruire come era la città in quell’anno, quali film davano al cinema una determinata sera… Lo stesso per il secondo, ambientato a Ivrea, durante il carnevale e la scalata dell’Olivetti, ma in quel caso ho ricordi di prima mano perché a Ivrea ci vivevo».

E per l’ultimo, di ambientazione langarola?
«Ho fatto sopralluoghi sia al piccolo cimitero abbandonato di Monforte in cui è ambientato il ritrovamento del cadavere, che a Bra, conosciuta bene ai tempi del servizio militare. Ad Asti, poi, ho lavorato per anni…».

Da quale spunto è partito per “Il procuratore e la Casa del pavone”?
«Lo spunto mi è stato dato quando mi hanno raccontato di questo prete che faceva cer­ti traffici, ma parliamo di pa­recchi decenni fa, questa faccenda mi ha intrigato e quindi sono partito da lì».

C’è qualche elemento autobiografico anche nel suo protagonista?
«Francesco Ròtari è come io avrei voluto essere».

Ròtari è un nome particolare, richiama per assonanza il suo cognome, Vìtari…
«Io mi chiamo Vìtari e non Vitàri, e ho passato la vita a correggere le persone, come mi aveva preannunciato mio pa­dre, spiegandomi come il fatto che sia Vìtari e non Vitàri di­stingua la provenienza: come Ròtari ha un’origine longobarda, men­­­tre Vitàri, è più siciliano… ».

Nel presentarsi a un editore, la sua storia personale di ex procuratore è un valore aggiunto?
«Sicuramente lo è stato per il primo romanzo, sia perché era molto autobiografico e riguardava un processo che è stato importante per Torino, sia perché ero appena andato in pensione e il mio nome ancora “girava” in Procura».

A proposito, i colleghi come hanno accolto questa sua vena letteraria?
«Con una certa curiosità. Io però vorrei conquistarmi un pubblico che si appassioni ai miei gialli, non all’ex magistrato che scrive romanzi, perché quello a poco a poco viene me­no».

Si è mai trovato davanti a un caso talmente assurdo da pensare che non sarebbe mai potuto sembrare verosimile in un romanzo?
«Durante le presentazioni dico spesso che se nel romanzo il lettore trova elementi poco verosimili è quasi certo che siano proprio quelli veri. Nel corso di tanti anni di lavoro in Procura capitano delle cose incredibili… mi piacerebbe ri­cordarmele tutte, ci scriverei un bel po’ di romanzi!».

BaNNER
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