Maurizia Cacciatori, suo papà è stato portiere di calcio in Serie B. Era destino che lei facesse carriera nello sport?
«In realtà non è che in famiglia ci fosse una vera cultura di fare sport. Ho cominciato con il nuoto da piccola, ma non ci andavo così volentieri. Poi un giorno, in spiaggia a Marina di Carrara, il direttore sportivo di una squadra di volley mi vede palleggiare da sola e da lì comincia tutto. Non sapevo neanche che si potesse giocare in una squadra di pallavolo. La passione fu subito travolgente, soprattutto per l’idea di poter condividere quello sport con altre ragazze. È stata sempre questa la mia motivazione, ciò che mi ha spinto a lasciare casa a 15 anni».
Qual è il dettaglio che fa la differenza nella carriera di chi diventa un campione?
«Ho sempre dato valore ai miei sacrifici. Ricordo benissimo la mia prima valigia, con le ginocchiere, le scarpe, i calzini e tutto il resto. Ho sempre nella mente tutti quegli anni straordinari in cui ho vinto tanto, ma anche quelli difficili e senza risultati. È proprio lì che ti rendi conto quanto valga la pena non tirarsi indietro. Quella valigia però ha un grande significato, mi ha spinto a non tradire mai me stessa. Sapendo che nello sport si può essere eroi e anche l’opposto».
Come dice Spiderman: a superpoteri corrispondono grandi responsabilità?
«Esatto, è così».
Lei è stata la prima ragazza immagine della pallavolo.
«Ho conosciuto un exploit fortissimo e inaspettato. Ero diventata capitana in azzurro, premiata come miglior palleggiatrice al mondo e questa attenzione, che era tutta per me e non per le altre, rendeva per assurdo le cose più difficili, perché ho sempre pensato che in campo dovevamo batterci tutte insieme. Essendo stata sempre espansiva, sono riuscita a gestire il successo in maniera adeguata, grazie alla comunicazione. Mi veniva spontaneo. Gli sponsor mi mandavano regali che dividevo puntualmente con le compagne. Io ero sempre con loro: sentivano questa attenzione e ricambiavano con un’empatia straordinaria, dandomi forza. Anche se poi trovavo imbarazzante vedere che, alla fine, tutti cercavano solo me. Non riuscivo ad abituarmi».
Oggi è comunque cambiata la mentalità: ogni atleta ha il proprio, curatissimo, profilo social…
«Certo. Per quanto mi riguarda, sono espansiva ma non ho mai ricercato la popolarità, eppure con i social devo conviverci e per fortuna ho un seguito di persone non maleducate. Bisogna muoversi su due fronti. Anche quando andavo in campo giocavo due partite: dopo il volley c’era un’altra ora e mezza di foto e autografi».
Tutto questo l’ha agevolata a trovare una strada professionale dopo lo sport?
«Assolutamente sì, per me la vita è fatta di cicli che si aprono e si chiudono. Con la pallavolo ho smesso presto, a 34 anni: avrei potuto continuare ma ero consapevole di potermi misurare in altri ambiti e poi lo sport mi aveva già dato tanto. Mi considero una donna curiosa, lo ero già da ragazzina, quando giocavo in Spagna ero chiamata la “Chica del voleibol”, la “ragazza della pallavolo”; oggi conservo i valori che lo sport mi ha trasmesso».
Come è stato il suo rapporto con gli allenatori? Il più problematico quello con il Ct azzurro Bonitta?
«Quando in un team hai un personaggio dalla forte personalità, si creano sempre contrasti. Non ho mai creato problemi, anzi, come capitana cercavo soluzioni e non scuse. Però avevo un nome pesante. Ho avuto comunque confronti autentici, per me contava sempre il team e spesso sono stata l’avvocato delle cause perse. Ma non mi sono mai nascosta».
Altre giocatrici, come la sua amica Francesca Piccinini, hanno fatto scelte diverse e hanno continuato a giocare il più possibile.
«Non sa quante volte le ho detto che forse era arrivato il momento di smettere anche per lei… Ma ognuno fa scelte che vanno rispettate».
Segue ancora il volley?
«Certo, mi piace tantissimo, cerco sempre di trovare qualche nuovo talento. Collaboro con Dazn ma sono una pessima commentatrice, più che altro sono tifosa e quando gioca la Nazionale è come se fossi in campo al fianco delle giocatrici, so cosa provano. E così quando fanno errori, lo ammetto, sono poco obiettiva».
Come giudica le squadre piemontesi di A1 femminile?
«Novara è da anni un club organizzatissimo e al top, ma anche Chieri e Cuneo. Ho giocato in mille palazzetti in Piemonte e ho trovato sempre grande passione, so quanto la pallavolo sia amata qui».
Qual è il messaggio che porta alle aziende grazie alla sua esperienza di campionessa?
«Vedo le aziende come i miei spogliatoi. Ne ho avuti di super-performanti e anche di depressi, demotivati. Ogni azienda conosce questa realtà, bisogna arrivare alla motivazione di chi indossa la maglia. Quando lo fai per la Nazionale conosci perfettamente i valori che devi difendere e portare avanti. Questa appartenenza a livello aziendale non sempre riesce a emergere. È questione di buona comunicazione, nel volley ci si scambiano segnali con gli sguardi. Le aziende sono come squadre ed è quello il mio ambiente».
Ha avuto, in questo senso, un insegnante d’eccellenza come Velasco. Che cosa le ha lasciato?
«Julio è stato il mio commissario tecnico quando ho indossato la fascia da capitana in azzurro. È andato oltre il suo ruolo puramente tecnico, ci ha dato strumenti per metterci realmente in gioco. Quando è arrivato, ha trovato un ambiente da cambiare, giocavamo da anni sempre allo stesso modo e i risultati non arrivavano. Ci ha fatto capire che dovevamo cambiare mentalità, che ogni avversità doveva essere affrontata con un atteggiamento costruttivo. C’era troppa “aria fritta”, come direbbero in Spagna. Velasco ci ha focalizzate sul valore della maglia e oggi le ragazze hanno ereditato quella mentalità. Stesso discorso anche per le aziende: la cultura della mentalità vincente contamina chi arriva. Se questa non c’è, è davvero difficile coltivarla».