In un’epoca colma di incertezze è consigliabile cercare dei porti sicuri dove far approdare menti e coscienze. È così che ci siamo rivolti a Corrado Augias, uno dei più autorevoli conoscitori degli scenari politici e sociali d’Italia.
Augias, come sta la Repubblica italiana?
«Il momento che stiamo vivendo è difficile, molto difficile. Non abbiamo più i partiti che ci hanno tenuto insieme per tutta la seconda metà del Novecento e non abbiamo nemmeno più i grandi leader: sulla scena politica si affacciano dei personaggi che, se si fossero trovati a operare nell’epoca di quei grandi leader a cui facevo riferimento, sarebbero rimasti in terza o quarta fila. E, invece, adesso si ritrovano in prima linea. A ciò si aggiungono alcune difficoltà contingenti, che speriamo possano essere passeggere, come le conseguenze della pestilenza da Covid e le fragilità di un Paese indebitatissimo».
A proposito di Covid, come giudica la gestione “nostrana” della pandemia?
«Sono rimasto sorpreso dall’efficacia dell’azione messa a punto, soprattutto se si tiene conto del fatto che nella primavera del 2020 l’Italia era stata la nazione d’Europa più pesantemente aggredita dalla pandemia. Abbiamo risposto con senso di disciplina e provvedimenti efficaci. Quando il commissario Figliuolo assunse l’incarico e annunciò che si sarebbero presto inoculate 500mila dosi di vaccino al giorno, molti ridevano. Invece, è stato fatto. Quindi, da quel punto di vista, sono “contento”…».
Sono stati lesi dei diritti?
«Neanche per idea. Certo, sono state limitate delle libertà. È un discorso che vale per tutti. Ma ci sono casi in cui, per tutelare l’interesse generale, le libertà vanno limitate. E la salvaguardia della salute pubblica rientra sicuramente tra questi casi. Lo prevede anche la Costituzione».
Personalmente come ha vissuto i lockdown?
«Io sono stato bambino durante la guerra e all’epoca ben altre libertà erano limitate. Si parla di libertà fondamentali e non di limitazioni tutto sommato blande come quelle dei recenti lockdown. Non bisogna mai dimenticare una cosa: anche durante i recenti periodi di chiusura totale, i supermercati sono sempre stati riforniti di merci e gli ospedali di medicamenti. È un fatto non trascurabile».
A chi o cosa aggrapparsi?
«Le difficoltà professionali si superano cercando di ovviare alle cause che le hanno determinate. A livello emotivo, conta l’esperienza personale di ciascuno. Per quanto mi riguarda, il periodo più duro è stato senz’altro quello della guerra. Mia madre aveva origini ebraiche e in quei momenti di terrore, con i nazisti che giravano per Roma, la paura che quell’ascendenza venisse riconosciuta e presa in conto era costante. Per fortuna, non è successo, ma la preoccupazione e la tensione c’erano. Poi, quando ero un giovane, il nostro Paese stava vivendo il boom economico; ebbi addirittura l’opportunità di partecipare a tre concorsi di massimo livello, per poter lavorare alla Olivetti, in Rai o per la Banca Commerciale. Mi ritengo, quindi, fortunato, specie se penso a mio nonno, che ha dovuto affrontare due guerre, e a mio padre, che ne ha combattuta una…».
I giovani di oggi non riescono a capire quelle situazioni?
«Per i ragazzi che oggi hanno un’età intorno ai 20 anni è difficile comprenderle. Quelli della mia generazione hanno memoria, seppure infantile, delle difficoltà. Loro, invece, no. Qualche volta lo dico paternalisticamente ai miei nipoti: “Voi non sapete cosa siano le vere difficoltà”. Ad esempio, quando non c’è da mangiare… Al confronto, dover fare il vaccino è una stupidaggine. Si tratta di una mancanza che rischia di creare in loro una visione falsata».
In generale, l’essere umano come uscirà da questa situazione?
«In questo contesto certamente drammatico, con una pestilenza che non accenna ad arrestarsi, emergono due situazioni: ci sono prove di disciplina, abnegazione, sacrificio, dedizione e generosità verso gli altri ma anche, all’opposto, prove di incoscienza, in cui ci si concede a trasgressioni pericolosissime perché si concepisce l’emergenza sanitaria come un gioco. Provando a tracciare un bilancio, forse prevalgono le esperienze virtuose, ma quelle negative, purtroppo, non sono poche…».
Anche la fase di trasformazione dei media non aiuta…
«I mezzi di comunicazione stanno attraversando un periodo di enorme trasformazione: l’informazione su carta sta declinando a vantaggio dell’informazione digitale. Un tipo di informazione, quella digitale, che cambia tutto: un conto è leggere una notizia su un pezzo di carta, un altro è farlo attraverso lo schermo di un telefonino. Per un po’ di tempo, i due media continueranno a convivere. Dopo non so cosa capiterà. È difficile prevederlo perché questo è un passaggio di civiltà: dalla cultura della parola scritta si sta procedendo verso la cultura della parola “volatile” sui dispositivi digitali. Si sta passando da una società in cui il produttore di informazione era nettamente diviso dal fruitore a una società in cui ciascuno è un potenziale creatore di notizie, vere o fasulle che siano… Questa rivoluzione ha un’influenza anche sulla politica, che viveva di una cultura propria e di alcuni suoi esponenti che la incarnavano».
Mancano i visionari, dunque…
«Ai visionari preferisco quelli che “fanno cose”. Nella storia, san Francesco d’Assisi, e lo dico pur non essendo cattolico, è stato un grande visionario perché ha indicato una strada. Lo stesso hanno fatto Kant, Spinoza, Montaigne…».
Chiudiamo con una domanda locale: conosce Alba?
«Certo! Ci sono stato diverse volte. La provincia di Cuneo, da cui proviene pure il mio ex direttore Ezio Mauro, è una delle più civilizzate d’Italia. Quindi, come pensare a quei territori e, più in generale, al Piemonte se non come un possibile modello?».