La discriminazione di genere e la pandemia. Checco Zalone, sul palco dell’Ariston, si avventura in temi scivolosi: aggira la ricerca del divertimento grasso e spiccio per strappare, con sorrisi e risate, riflessioni. Racconta e canta l’ipocrisia che circonda il mondo “transgender” e ironizza sui virologi diventati star, ovviamente dividendo, perché le fazioni sono sport popolare in Italia, ma raggiungendo comunque lo scopo di alimentare, attraverso la satira, un dibattito profondo.
Soprattutto con la rivisitazione di Cenerentola, attira critiche e accuse, gli imputano la caduta in luoghi comuni dolorosi (la protagonista che si prostituisce) o derive macchiettistiche, dal nome maschile e al timbro di voce. Per noi lo fa senza offendere, rovistando nella società che ci circonda per rimarcarne vizi e vizietti, e alla fine, comunque, anche piccoli eccessi appaiono perdonabili: conta che di un tema delicato e grave (quanti, per esempio, sanno che l’Italia è il paese europeo con più omicidi legati al genere?) si sia parlato molto più che dopo dotti convegni, seriosi appelli e pubblicità martellanti. Se serve a migliorare la sensibilità, si può accettare anche uno sconfinamento negli stereotipi.
Alla fine, i giudizi positivi prevalgono, come è sempre successo anche nei film e nelle canzoni. Checco sa far sorridere con una semplice smorfia, con una barzelletta tagliente, con una canzone riadattata, con le parolacce intercalate, eppure s’accosta con sarcasmo alle sofferenze del mondo gay in “Cado dalle nubi”, ironizza sull’Islam in “Che bella giornata”, denuncia l’indolenza comoda del posto fisso in “Quo Vado”. Ci vuole cultura, ci vuole grandezza artistica. Fior di attori, quando hanno provato a frugare nelle debolezze del mondo hanno fatto ridere meno e sono stati costretti a rispolverare maschere perdute; lui ha alle spalle, senza mai rinnegarle, quelle di Zelig ed è sempre più un novello Sordi, interprete delle debolezze, dei difetti, delle contraddizioni italiche. D’altronde, le rivisita dall’alto di una cultura che volutamente nasconde nel personaggio ignorantone: laurea in legge, diploma al conservatorio, curiosità infinita, voracità di sapere, la scelta del popolare greve calcolata fin dal nome d’arte, che sta per “Che Cozzalone”, dalle sue parti vuol dire “Che Tamarro”. Una satira estrema, a volte feroce, se proprio vogliamo dirla tutta a Sanremo quasi mitigata, a volte inevitabile per andare al cuore del problema. Gli stereotipi, crediamo, fin dal teatro antico, sono strumento per sollevare temi delicati e scomodi, altrimenti sottaciuti, evitati dalla gente che invece ama lo spettacolo e capisce, attraverso, che ridere è bello, deridere no.
Zalone dissacra, non fa sconti. E come chiunque si metta in gioco con coraggio può imbarazzare. Ma combattere il “politically correct” denota intelligenza e voglia di anticonformismo. Non è cambiato, Checco, dalle serate di cabaret nelle tv locali a Sanremo, non è cambiato benché i suoi 5 film abbiano incassato 220 milioni. Farà discutere, ma è unico e bravissimo. Farà discutere, ma ce lo teniamo stretto. Fortuna per il mondo artistico che, quand’era ragazzo, non ha superato i concorsi in Polizia e all’Inail.
Novello Albertone
Le performance di Sanremo, tra polemiche e applausi, confermano Checco Zalone come erede di Sordi: rovista nei difetti degli italiani, dissacra e irride, ma soprattutto fa riflettere