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Siccità invernale un problema nato a fine anni ’80

Fulvio Romano fornisce alcuni importanti elementi per capire le dinamiche che hanno portato a un gennaio senza pioggia

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IIn tutto il Piemonte non piove dallo scorso 8 dicembre. Preoccupa an­che il livello del Lago Maggiore che ad oggi è a -5 centimetri rispetto allo zero idrometrico di Sesto Calende (evento accaduto raramente negli ultimi 30 anni) il che sta a significare che ci sono circa 200 milioni di metri cubi di acqua invasata in meno rispetto allo standard, con una discesa, a partire da dicembre, di 5 centimetri alla settimana. Oltre al livello del lago preoccupa anche l’innevamento: le scarse nevicate e il protrarsi di condizioni anticicloniche con temperature superiori alla norma, hanno ridotto progressivamente lo spessore del manto nevoso che si presenta ridotto del 50% rispetto allo standard.

Ne abbiamo parlato con Fulvio Romano, esperto, tra le altre cose di meteorologia, di cui scrive per diversi giornali e settimanali locali, attirando l’attenzione di un pubblico assai vasto. 

Questo gennaio senza precipitazioni è un’eccezione o ce ne sono stati altri in passato?
«In passato abbiamo avuto almeno cinque mesi di gennaio senza precipitazioni: nel 1916, nel 1938, nel 1944, nel 1959 e nel 1983. Ma purtroppo il dato non ci può tranquillizzare perché oramai è dal 1988-89 che assistiamo al ricorrere di siccità invernali, di questi lunghi periodi senza acqua e neve. Per il cuneese il record in questo senso è di 52 giorni, a fine anni ’80. In effetti è alla fine del secolo scorso che l’andamento ha cominciato a cambiare perché nell’antichità c’erano siccità, ma erano siccità che si accompagnavano al freddo più che al caldo, come invece avviene ora. Ma se oltre a non piovere fa caldo, la terra si asciuga di più. Il problema più imminente è quello delle riserve d’acqua, che dobbiamo andare a cercare sempre più in profondità, e delle colture, che patiscono la siccità e, visto il caldo, mettono i primi fiori. Se arriverà una nevicata o un gelo tra qui e aprile, avremo effetti disastrosi per le produzioni ortofrutticole».

Questa tendenza può essere collegata a fenomeni come quello dell’alluvione dell’ottobre 2020 che ha colpito la zona di Limone Piemonte?

«Certamente, perché uno degli effetti del riscaldamento globale è l’estremizzazione degli eventi climatici, per cui abbiamo lunghi periodi di siccità associati a fenomeni intensi, non solo alluvioni, ma anche tornado, grandinate… Lo scorso anno ad aprile, in piena fioritura, abbiamo avuto freddi ricorrenti. Il clima non è mai molto saggio, ma ora si può dire che è davvero un po’ impazzito…»

Dobbiamo preoccuparci?

«Sono convinto che la Terra in ogni caso sopravviverà. La foresta sta cancellando la città fantasma di Chernobyl, orsi e bestie selvatiche stanno ripopolando la zona. Se si creeranno le condizioni, la Terra ci sostituirà con altre forme viventi, magari più sagge della nostra. Dobbiamo preoccuparci innanzitutto per noi, anche localmente perché gli attuali cambiamenti del clima viaggiano paralleli all’inquinamento, ormai è evidente. Alcune forme sono più dannose per noi, altre per l’atmosfera; sappiamo per esempio che uno dei fattori dell’effetto serra sono le emissioni degli allevamenti intensivi, mentre il fumo di legna inquina l’aria che respiriamo con le Pm10 e Pm 2.5. Basta dotarsi di strumenti adeguati per bloccare le particelle. E poi bisogna controllare l’agricoltura, che spesso non è idilliaca come ci raccontiamo. Senza dimenticare che ci sono accorgimenti a livello personale, come un uso più attento dell’acqua».

In questo senso forse l’educazione ha il ruolo più importante…

«Certo e penso che certi movimenti, anche romantici, un po’ ingenui che hanno interessato i giovani, siano da rispettare, da comprendere e soprattutto da ascoltare in modo fattivo. Come è accaduto per il coronavirus, qualcuno si è preoccupato fin da subito, mentre altri sostenevano fosse una montatura. Lo stesso vale per il cambiamento climatico; ci sono delle resistenze che bisogna superare, evitando di fare della questione del clima una posizione ideologica, come è avvenuto per i vaccini».

Come si arriva a essere un punto di riferimento per la meteorologia?
«Sono laureato in Filosofia e ho insegnato per vent’anni al liceo scientifico, prima di diventare preside in diversi istituti a Cuneo, Saluzzo, Bra, Mondovì, Dronero e Barge. Mi sono sempre occupato di filosofia della scienza e di storia del clima, seguendo la scuola francese di Bloch, secondo cui talvolta si capiscono meglio i fenomeni storici traumatici leggendo del clima; un esempio: all’origine della Rivo­lu­zione francese ci furono anche lunghi anni di clima umido che danneggiò i raccolti, fece di conseguenza aumentare il prezzo del grano e alimentò il malcontento… Sono tra i fondatori dell’osservatorio astronomico del liceo scientifico di Cuneo, e ho organizzato il ritorno dell’osservatorio me­teo sull’ex campanile di Santa Chiara a Cuneo; quell’osservatorio ha garantito una continuità nella raccolta dei dati, elemento fondamentale perché senza dati non si possono fare comparazioni».