Home Articoli Rivista Idea «In politica estera l’Europa non ha una voce univoca»

«In politica estera l’Europa non ha una voce univoca»

Sabadin: «La questione delle basi Nato infiamma l’Ucraina». L’analisi dell’ex corrispondente da Londra e vicedirettore per La Stampa: «Putin ha posto all’Occidente un problema che si può risolvere diplomaticamente. Sul Covid i giornali stranieri si sono dimostrati più affidabili dei nostri. Nelle Langhe le storie dei contadini sono lezioni di vita».

0
389

Vittorio Sabadin, che cosa sta per accadere al confine tra Russia e Ucraina?
«Il fatto che da settimane ci siano manovre, raggruppamenti di soldati e minacce, con un dibattito internazionale sempre più acceso, fa pensare che Putin non voglia in realtà causare un intervento militare. Se accadesse, sarebbe per lui un problema, anche economico, e potrebbe scatenare la reazione della popolazione ucraina un po’ come avvenuto in Afghanistan: una situazione di occupazione che richiederebbe un continuo dispiegamento di forze, con un impegno militare ed economico molto gravoso».

Ma perché allora questa strategia della tensione?
«Ritengo che Putin stia ponendo all’Occidente un problema, da risolvere diplomaticamente: le basi della Nato ormai sono in quasi tutti i paesi che confinano con la Russia e l’idea che anche l’Ucraina possa averne, completando un cerchio militare molto pesante, porta a una protesta non dico legittima ma che l’Occidente dovrebbe tenere in considerazione. Si scontra però con il fatto che gli Usa vivono una crisi interna molto grave per diversi motivi. Per il Covid, la crisi, l’inflazione, le divisioni politiche e il timore che Trump si ripresenti alle elezioni avendo il sostegno di una popolazione mai così divisa (addirittura c’è chi paventa la guerra civile). Il numero di armi nelle case degli americani non è mai stato così alto, insomma non c’è mai stato un momento così infelice. E sappiamo che quando i presidenti americani hanno crisi all’interno del loro paese, le risolvono spesso con azioni militari all’estero. Specialmen­te i presidenti democratici. La tensione è dunque alimentata anche da fattori esterni, con la debolezza dell’Europa che si è vista nella mancanza di un intervento univoco».

C’è una soluzione?
«Un compromesso: se l’attuale presidente ucraino Zelenskiy, un ex comico alla Beppe Grillo, si dimetterà e se al suo posto subentrerà un governo filo-russo dichiarando che l’Ucraina non entrerà nella Nato, allora si eviterebbe l’invasione. Gli Usa farebbero finta di arrabbiarsi e la crisi in qualche modo finirebbe. Anche se poi in queste situazioni ad accendere il fuoco basta una scintilla»

L’Italia avrebbe dovuto avere più voce in capitolo?
«Draghi ha fatto quello che ha potuto, allineandosi alla soluzione diplomatica, però si è visto con il nulla di fatto tra Macron e Putin che non è l’Europa il bandolo, ma il rapporto con gli Usa».

E l’Europa?

«È stata indebolita dalla posizione ambigua della Germania, dal suo nuovo cancelliere molto criticato. C’è in ballo il Nord Stream 2 per cui le imprese tedesche si sono impegnate portando gas sul suolo tedesco, aprendo una porta per l’Europa che ora risulta minacciata da eventuali sanzioni contro la Russia. Quindi la Germania si è tirata indietro. La Gran Bre­tagna è invece fuori, va per conto suo, il viaggio di Boris Johnson a Kiev è stato ridicolizzato per lo scandalo dei party a Downing Street nel pieno delle regole anti-Covid, tanto che Putin non ha parlato con gli inglesi neanche al telefono. Ma se l’Europa non ha una voce sola, tutto risulta inutile. Manca la Germania, anzi ci vorrebbe una Merkel con le sue capacità di mediatrice».

Le debolezze europee erano state già evidenziate dal Co­vid?
«Nell’emergenza sanitaria o­gnuno è andato per conto suo. Dalla Gran Bre­ta­gna più liberale che ha e­vitato chiusure forti, all’I­talia che invece ha fatto il contrario come altri paesi. Ma in Politica E­stera serve un fronte comune».

Qual è lo stato di salute della comunicazione? Il Covid ha portato danni anche in questo settore?

«Nel 2008 con il mio libro “L’ultima copia del New York Times” avevo previsto che la crisi dei giornali su carta si sarebbe aggravata. Purtroppo, è andata proprio così. In epoca Covid la qualità dell’informazione è stata pessima. Del resto, su web rappresenta un costante rumore di fondo dal quale difficilmente emergono posizioni responsabili. La gente è abituata a cambiare canale, a interagire sui social, a cercare elementi che stimolino l’attenzione e il divertimento. L’informazione è diventata quindi intrattenimento, con il compito di divertire come Tik Tok o come Dagospia. E allora chi porta avanti un’informazione paludata, seria, capace di esporre la realtà e i suoi pericoli, è sempre meno ascoltato. In questo quadro è evidente che un professore universitario sia meno interessante di un “no vax” che parla di microchip e complotti internazionali».

Anche all’estero è andata così?
«In Italia abbiamo visto una pletora di virologi o presunti tali esibirsi in tv, dicendo qualsiasi cosa. Nei paesi più seri ciò non accade. Sui giornali inglesi o americani c’è molta più qualità. In America si è dato retta solo a Fauci, in Gran Bretagna al dottor Ferguson. Noi abbiamo avuto un commissario, subito sostituito dal generale Figliuolo che è stato bravissimo, ma un po’ imbarazza vedere un uomo in divisa e medaglie argomentare sul Covid».

Lei parlò di fine dei giornali di carta, ma il Daily Mail vende ancora un milione di copie. In Italia invece…

«Lo Yomiuri Shimbun in Giappone arriva a 7-8 milioni. Il punto è che il Daily Mail, che pure è considerato popolare e visto con snobismo, in ogni titolo mette la parola «you». Ovvero «tu». Ogni tema parte dalle persone, nelle case della gente. In Italia ci sono direttori che pensano di dover partecipare al dibattito politico, come fossero membri del governo. Questa percezione da protagonisti all’estero non c’è. In Italia si vede nei dibattiti televisivi, non si capisce che così si perde contatto con il lettore e con i suoi bisogni. E viene meno anche il ruolo democratico del giornalismo che deve aiutare il lettore a capire la realtà, a costo anche di dirgli cose scomode».

Per concludere, cambiando argomento: ha vissuto a Torino e conosce il Piemonte. Come vede la zona di Alba e delle Langhe?

«Ora vivo a Roma, ma ho trascorso 60 anni a Torino e venivo nelle Langhe ogni volta che potevo. Le Langhe sono un posto meraviglioso non solo per il paesaggio, ma per la gente che ci abita. Gente che discende da generazioni di contadini che hanno coltivato l’uva e una cultura ancestrale che resta bellissima. Quando parli con un contadino c’è sempre qualcosa da imparare, oltre che per le coltivazioni o le fasi lunari, per le questioni di vita. In più, come tutti, amo i tartufi e quando arriva l’autunno con mia moglie Laura, molto spesso, anche da Roma partiamo per il rito dei tartufi e veniamo ad Asti o Alba dove abbiamo amici che ci ospitano. Torino è nel mio cuore ma anche le Langhe sono decisamente un luogo del mio cuore».