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«La scrittura ha riacceso in me una scintilla»

La sommarivese Alessandra Forlani Vaira si è cimentata con una raccolta di racconti

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Guardando la sua pagina Facebook c’era da aspettarsi che, prima o poi, la lunga serie di racconti premiati in diversi concorsi in giro per il Piemonte confluisse in una raccolta. La decisione, però, non è partita dall’autrice, Alessandra For­lani Vaira, bensì dalla professoressa Anita Piovano, sua amica ed estimatrice, nonché sommarivese come lei. «Non avevo mai pensato di pubblicare un’antologia di racconti», spiega la diretta interessata. «Ogni storia è na­ta singolarmente, quasi sempre in risposta al bando di un concorso letterario. E poi i miei racconti nascono senza una trama predefinita. L’in­treccio narrativo lo co­struisco man mano che scrivo. So che ai corsi di scrittura insegnano a creare la scaletta, a definire il personaggio, delinearne il carattere, studiare il contesto. Sarà il modo giusto di procedere, non lo metto in dubbio, ma non fa per me. Per me scrivere è come sognare: in­vece di chiudere gli occhi, muovo le dita sulla tastiera del pc e quello che ne esce diventa il racconto».

Alessandra, la sua raccolta parte da “Impronte” che dà non solo il nome, ma anche detta un po’ la linea dell’antologia…
«In effetti è l’unico racconto nemmeno un po’ autobiografico, in cui c’è nulla di vero, ad eccezione della casa in cui ambiento la storia, per la quale mi sono ispirata all’abitazione di una mia a­mi­ca d’infanzia. Ciò nonostante in questo primo brano ci sono tutte le tematiche che si sviluppano nelle pagine seguenti: l’amo­re, amicizia, il rapporto madre e figlio, la nostalgia per una casa perduta…».

Come è stato confrontarsi con il respiro più breve del rac­con­to, dopo aver scritto un ro­manzo “Il pino che faceva le ciliegie”?
«Di mio sono decisamente prolissa e lavoro molto di fantasia. Mi piace descrivere luoghi e persone, dilungandomi nelle descrizioni, cosa che in un racconto di poche pagine non è possibile fare. Ora sto iniziando a capire come affinare e rendere il discorso più scorrevole. All’inizio scrivevo tutto e poi tagliavo, ma non è il modo giusto. Bisogna imparare a scrivere conciso fin da subito. Se lo scrivi in un modo e poi lo sottoponi all’operazione di “taglia e cuci” il risultato finale non è quello che dovrebbe essere».

Anche nell’antologia, si fa riferimento alla cascina dei nonni in cui ha trascorso l’infanzia. Il legame con quel luo­­go, non più di proprietà della sua famiglia, è ancora forte?
«Anche se le mie radici sono e rimangono li, non fa più male il distacco, perché ho capito che nessuno me lo porterà più via: quel luogo mi appartiene. A prescindere da chi ci vive, quella è la casa della mia anima. Non importa che io non ci possa entrare, so che c’è. Quando sono sconfortata cambio la strada per rientrare a casa facendo un giro un po’ più lungo che mi permette di passare davanti alla cascina. Capita che mi fermi lì, guardi il cancello e immagini di fare un giro virtuale dentro le stanze per poi ripartire, rasserenata».

La sua raccolta è successiva all’avvento del Covid. Questa emergenza ha inciso su di lei e sulla sua scrittura?
«Credo che questa pandemia mi abbia cambiato nel profondo».

In bene o in male?
«La vita non è facile per nessuno, abbiamo passato e stiamo ancora vivendo momenti di tristezza e di paura. Adesso però mi è chiaro, come mai prima, che devo fare ciò che mi fa stare bene, perché vivere la vita facendo solo ciò che è necessario, per assecondare le richieste degli altri e ricercare la sicurezza economica, rende inevitabilmente tristi e la tristezza alla lunga ha conseguenze negative, anche sulla salute. Ho 51 anni e voglio fare le cose che mi fanno stare bene. Se non posso vivere solo di quello, pazienza: farò anche altro».

Sembra proprio che abbia trovato la sua dimensione…
«Mi sono resa conto che per stare bene con se stessi bisogna essere felici di quello che si fa, ma non sempre quello che si fa per vivere basta per essere felici. Fortunatissimi quelli che ci riescono, ma non sono tanti. Io sono molto fortunata a vivere dove voglio vivere, lavorare nel mondo del vino, che mi appassiona, però il fatto di non aver scritto per tanti anni mi aveva tolto un po’ di quella scintilla di vita che ora penso di aver ritrovato».

Una vera e propria epifania, insomma. Per la quale deve dire grazie a qualcuno?
«Chi ha creduto nelle mie potenzialità di più e prima che lo facessi io. Mi riferisco alla professoressa Piovano e a Sergio Maria Gilardino (do­cente di letteratura comparata all’Università Mc Gill di Montreal, massimo esperto di lingue e letterature minoritarie, ndr). “Se quello che scrivo piace a due come loro”, mi sono detta, allora è davvero plausibile che qualche lettore possa essere interessato. Poi c’è mio marito, Luigi Vaira, che legge quello che scrivo in anteprima. Se una cosa con gli piace la cestino subito perché è il mio primo giudice».

Sta scrivendo qualcosa in questo momento?
«Nulla. Mi sto prendendo tempo per meditare, per provare a grattare via la polvere secca rimasta addosso da questi due anni. Sto provando a sfregare forte, per ripulire la mente dai detriti tossici dei messaggi mediatici, dalla rabbia e il senso di assoluta impotenza che troppo spesso ho subito, semplicemente scegliendo di accendere la televisione».