Più forte della timidezza

Filippo Scotti, che interpreta Sorrentino nel film autobiografico del regista candidato all’Oscar, era un adolescente chiuso, trasformato dal palco e dal set: lui vive i suoi primi passi da attore tra orgoglio e paura, mentre pubblico e critica sono concordi: scriverà la storia del cinema

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Ci sono emozioni intime, profonde. Più intense di quelle legate a un premio o a un applauso, a una critica benevola o a un selfie chiesto per strada. Filippo Scotti, attore rampante, Fabietto nel film “È stata la mano di Dio”, ne custodisce una dolcissima: la nonna tornata al cinema dopo quarant’anni per vederlo. Sorride impercettibilmente quando lo racconta, la timidezza del personaggio che gli ha regalato gloria appartiene in fondo alla persona, anche se attenuata negli anni con l’aiuto proprio della recitazione.
Papà ne ha orientato la passione senza volerlo, mostrandogli a nove anni “La finestra sul cortile” di Hitchcock, mamma gli consigliò i laboratori di teatro e lui sul palco ha trovato sicurezze che non conosceva, ritrovato la luce adolescenziale. Racconta d’aver trascorso i primi anni del liceo classico a Napoli, città dove s’è trasferito con la famiglia dopo aver vissuto la primissima infanzia a Dongo, in provincia di Como, in una condizione vicina a quella di Fabietto, solitario benché non mancassero amicizie, timoroso, spiega a Vanity Fair, d’essere «incompreso e con difficoltà scolastiche». Una chiusura che i primi copioni hanno sconfitto, ma che in parte resiste e che Paolo Sorrentino ha colto, scegliendolo per la parte di sé ragazzo non già per una somiglianza fisica ma, parole sue, per la timidezza e il senso di inadeguatezza in cui s’è rivisto. A lui non l’ha mai confidato, in tante interviste l’ha ripetuto, figurarsi quanto davvero Filippo si sia sentito fuori posto al suo cospetto, circondato da attori affermati, scelto da un regista sempre presente nei sogni sfogliati di adolescente che si nutre di pane e teatro, che è felice di particine ritagliate sullo schermo e sogna ogni giorno di fare della recitazione un mestiere. Al punto da trascurare la scuola per un ruolo importante a teatro, così rapito dalla passione da trovare l’incoraggiamento dei genitori insegnanti. Il cinema è fatto di corti, d’una partecipazione al film “Il re muore”, la tv di piccoli ruoli nelle serie “1994” e “Luna nera”, poi la fiaba, la svolta, la vertigine: un provino e la comparsa si trasforma in astro nascente del cinema, vincitore del premio Mastroianni al Festival di Venezia, volto giovane della pellicola che rappresenterà l’Italia all’Oscar, con la sensazione netta, di pubblico e critica, di non essere abbagliati da un fugace successo ma di testimoniare il debutto d’un predestinato. L’interpretazione è specchio d’uno straordinario talento, ma anche di rigore, studio, lavoro. Di un’estate vissuta in solitudine a respirare gli anni Ottanta, con la musica degli U2 e dei Cure in cuffia, e vedere e rivedere i film consigliati dal regista, adesso la magia di un successo improvviso, d’un inizio così importante che per tanti colleghi sarebbe approdo. Naturale la sensazione mista di orgoglio e di paura, naturale il batticuore aspettando Hollywood. Prima di nuove esperienze, magari a Parigi perché ha il cinema francese nel cuore, inseguendo una passione che passione non è: «Piuttosto qualcosa che sentivo di avere dentro e che dovevo solo far emergere», ha spiegato in una delle prime interviste, quando il film candidato all’Oscar era solo un miraggio.