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«È ormai dimostrato: gli antinfiammatori frenano il Covid»

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Il professor Giuseppe Remuzzi, con il suo team di ricerca dell’Istituto Mario Negri di Milano, ha teorizzato un metodo specifico per le cure domiciliari, evidenziando l’efficacia degli antinfiammatori nella battaglia al Covid. Spiega Remuzzi: «È ormai am­piamente dimostrato in letteratura che gli antinfiammatori non steroidei o Fans, co­me l’acido acetil-salicilico o l’ibuprofene, sono capaci di frenare la malattia ai primi sintomi, tanto da riuscire a ridurre considerevolmente l’ospedalizzazione. I due stu­di condotti al “Mario Negri”, e an­che altri lavori condotti altrove nel mondo, confermano che utilizzare antinfiammatori ai primissimi sintomi riduce notevolmente la severità della malattia. Al momento, stiamo definendo il disegno di un terzo studio, molto più grande, sotto l’egida di Aifa; questo studio avrà tutte le caratteristiche necessarie per non essere messo in di­scussione e per essere considerato “uf­fi­cialmente”. Per quanto riguarda, invece, gli antivirali, oggi ne abbiamo a disposizione diversi. Il primo, cronologicamente parlando, è il Remdesivir, farmaco dal curriculum di tutto rispetto. È un antivirale sviluppato per combattere il virus del­l’Ebola e ha dimostrato di poter funzionare, almeno in parte, contro i virus della Sars e della Mers, appartenenti alla stessa famiglia del Sars-CoV-2. A inizio pandemia, quando ve­niva utilizzato per le forme più avanzate di malattia, il Remdesivir ave­va dato risultati deludenti. L’idea era giusta, ma si sbagliava la tempistica. Oggi sappiamo che bisogna somministrarlo precocemente, nei primi dieci giorni di malattia, quando il virus è nella fase di replicazione. Il grosso limite di questo farmaco è la sua somministrazione per endovena, che può avvenire solo in ospedale. Gli altri due antivirali oggi disponibili, invece, superano questo problema, perché possono essere somministrati per via orale: il Molnupiravir della Merck e il Paxlovid della Pfizer. Se somministrati all’inizio della malattia, mentre per il primo si registra una riduzione del 30% della probabilità di ospedalizzazione e morte in pazienti con diagnosi ad alto rischio, per il secondo i risultati sono migliori, in quanto riducono questo rischio del­l’80%. Il Paxlovid, però, non viene som­ministrato da solo ma in associazione al Ritornavir, farmaco nato per la terapia dell’Hiv che aumenta la durata di azione del nuovo antivirale. Questi farmaci sono comunque riservati a pazienti fragili, in cui l’infezione potrebbe essere più a rischio di evolvere verso una forma grave».