IL FATTO
La morterte di Eluana segnò una tappa fondamentale nel dibattito sul fine vita. La questione è tornata attuale dopo la bocciatura del referendum da parte della consulta
Era il 9 febbraio del 2009 quando, dopo una lunga battaglia giudiziaria, il padre di Luana Englaro, Beppino, ottiene l’interruzione dell’alimentazione forzata per la figlia, da 17 anni in stato vegetativo. Eluana era entrata in coma irreversibile a seguito di un incidente il 18 gennaio 1992.
La sua morte segnò una tappa fondamentale nel dibattito nazionale sul fine vita. Una questione tornata di attualità qualche giorno fa, con la bocciatura del referendum da parte della Consulta. Ancora una volta Beppino Englaro si è sentito tradito da «una politica sempre più lontana dalla società».
«Questa ennesima non decisione di un organo dello Stato», aggiunge, «dimostra la crisi in cui versa l’Italia. Sono tutti cauti, timorosi di affrontare un simile tema, nessuno ha il coraggio di dare una risposta necessaria. Qui parliamo di libertà e diritti fondamentali costituzionali, ma siamo in un deserto». Per quanto riguarda la classe politica perché la società, invece, si dimostra pronta al cambiamento: non si erano mai viste 1.240.000 persone che firmano per un referendum. L’idea di costringere una persona a sopravvivere nonostante la sua volontà, nel Paese è un’idea minoritaria.
«Sono sicuro», dice Englaro, «che nessuno arretrerà di un centimetro. La mole di firme raccolte dimostra che la società vuole sentirsi finalmente libera».
Ed è proprio la società a strappargli un sorriso: «Quando abbiamo iniziato la nostra battaglia per Eluana eravamo soli. Soli a rivendicare un diritto sacrosanto che mia figlia voleva esercitare, non noi genitori. Lei non aveva voce e quella voce gliel’abbiamo prestata. Oggi non è più così. La società civile ha preso in carico il tema, si è espressa in tutte le sedi possibili, con ogni tipo di manifestazione possibile. A non essere cresciuta, maturata, a essere rimasta ferma è solo la politica». A Beppino sembra di essere ancora nello stesso pantano burocratico e legislativo in cui si trovarono lui e sua moglie Saturnia ormai trenta anni fa: «Io dico sempre che ci sono voluti 15 anni e 9 mesi, 5750 giorni perché mi fosse riconosciuto un diritto fondamentale sancito dalla Costituzione. Ho contato le ore a partire dall’incidente, dal 18 gennaio 1992. Chiedevamo, io e Saturnia, solo quel che Eluana avrebbe voluto: che le permettessero di andar via. Ma dal primo colloquio fummo sorpresi: non ne avevamo il diritto, mia figlia non aveva il diritto di scegliere».
«La non morte a qualsiasi condizione», conclude Englaro, «è qualcosa di spaventoso». Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, indica una sola via da seguire ora: disobbedienza civile e ricorsi, e qualcosa prima o poi cambierà: «Perché cosa c’è di più umano che alleviare le sofferenze a chi ti è prossimo, e ti chiede di farlo? Chi ama la vita, sceglie di poterla gestire».