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«Non ci credete: anche noi disabili vogliamo divertirci»

Marina Cuollo, speaker a TEDxCuneo 2022: «La mia missione? Cambiare la narrazione»

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Trattare di disabilità e discriminazioni, mettendo da parte ogni forma di ipocrisia e di frase fatta. È questo l’ambizioso obiettivo che qualche anno fa ha spinto la napoletana Marina Cuollo ad abbandonare la carriera da ricercatrice nel campo della biologia alimentare e dedicarsi a tempo pieno al racconto di sé e di come sia opportuno comunicare il mondo della disabilità. Con la rara sindrome genetica Melnick Needles, ama definirsi una «microdonna» che, proprio a partire dalla sua condizione, ha capito che il tempo dei piagnistei e della compassione era finito. La intervistiamo in oc­casione della seconda edizione di TEDxCuneo (in programma il 26 marzo e dedicata al tema “Ubuntu, identità connesse”) di cui Rivista IDEA e IDEA­WEB­TV.IT sono di nuovo me­dia partner ufficiali.

Una premessa prima di iniziare la chiacchierata: meglio “persona disabile” o “portatore di disabilità”?
«Assolutamente “persona disabile” o, al massimo, “persona con disabilità”. L’espressione “por­tatore di disabilità” è tipica del politically correct: la disabilità non è un cane che ci portiamo appresso».

Perfetto. Secondo dubbio: che ci azzeccano disabilità e biologia?
«Apparentemente poco. La mia prima grande passione è stata la biologia e per anni di questo mi sono occupata. A un certo punto, però, mi sono resa conto che avevo una necessità: quella di dare il mio contributo per cambiare lo storytelling che viene oggi utilizzato per raccontare disabilità e discriminazioni. Così, ho stravolto completamente la mia vita, ed eccomi qui».

Qual è il limite della comunicazione sulla disabilità?
«Sostanzialmente uno: è “pallosa”. Questa noia nasce dal fatto che è da sempre carica di drammaticità, che porta con sé un carico di stigma non in­differente nei confronti della persona disabile. Ecco, non va be­ne, perché questo modo di raccontarci ci fa sembrare co­me persone che piangono dal mat­tino alla se­ra».

Insomma, serve una comunicazione più diretta…

«Diretta e priva di frasi fatte e stereotipi. La vita dei disabili non è una passeggiata, ma di questi tempi, tra Covid e rischi di guerre mondiali, non è che lo sia per molti. Vi assicuro che anche noi sappiamo divertirci e ridere».

In questo senso, lei non ha fatto mistero di non aver ap­prezzato la comunicazione sul tema fatta all’ultimo Fe­stival di Sanremo. Che cosa non ha funzionato?

«Voglio fare una premessa: che si sia parlato su un palco così importante di cecità e discriminazioni di genere è già un grandissimo risultato. L’altra faccia della medaglia, però, è che lo si è fatto ancora una volta in modo errato. Il problema fondamentale è che nessuno tra gli autori ha pensato di interpellare qualche persona disabile durante la preparazione del programma. Ne è venuta fuori la solita narrazione pietista, in cui la persona disabile non parla ed è messa lì, come strumento per far fare bella figura all’artista che ha lavorato sul tema».

Quali sono i rischi?
«Principalmente, quello di appiattire la persona, riducendola all’essere una persona disabile. Una persona disabile, invece, è innanzitutto una persona, con i suoi pregi e i suoi difetti. A proposito, voglio sfatare un tabù: esistono anche disabili con un carattere orribile (ride, nda)».

Secondo lei, l’esteriorità con­ta ancora troppo oggi?

«Sì, soprattutto perché è attraverso l’aspetto esteriore che definiamo che cosa ci possiamo aspettare da una persona. Quando faccio nuove conoscenze, infatti, la prima cosa che mi fa “vibrare le antenne” è proprio lo stupore degli altri. Credo che esista uno stereotipo di base che ci fa credere che se un individuo è in un certo modo potrà fare solo determinate cose. Chi si stupisce delle capacità di una persona disabile e di cosa è in grado di fare lo fa perché aveva interiorizzato un’immagine precisa e delle aspettative, che sono state disattese. Il problema sta lì».

In questo senso, cos’hanno in comune persone disabili e persone che si riconoscono in minoranze?
«Proprio questo. Spesso mi interfaccio con ragazzi che hanno subito altre tipologie di marginalizzazione e ogni vol­ta mi rendo conto che questi fenomeni hanno elementi co­muni. Alla base c’è l’idealizzazione: se si ritiene che es­sere bianchi, eterosessuali e non disabili sia l’ideale, si assumeranno sempre atteggiamenti discriminatori nei confronti di chi non è co­sì».

Sapeva che Federico Borgna, primo cittadino di Cuneo, è il primo sindaco non vedente della storia italiana?
«Am­metto di averlo appena scoperto da lei, ma questa cosa è bellissima. Portare la disabilità a livello istituzionale è il miglior modo per integrarla».

A proposito, che cosa porterà a TEDxCuneo?
«Un intervento legato alla rap­presentazione delle persone con disabilità. Il tema del­l’evento è “Ubuntu”, che ri­manda al lavorare insieme per un mondo migliore. Cre­do che la disabilità appartenga a tutti e che tutti debbano lavorare per aiutarsi a vicenda. Cerco di vivere l’“U­bun­tu” attraverso le parole e poi credo fortemente nel potere della risata. Ridere ha la capacità di unire le persone in modi inaspettati»

In ultimo, ha in programma qualche nuovo lavoro editoriale?
«Sì, posso dire che tra non molto uscirà un mio nuovo libro, ma al momento non posso sbilanciarmi su date e temi trattati. Di certo, dopo TEDxCuneo potrò dire qualcosa in più…».