«Io che ho sempre raccolto storie dagli occhi della gente sono dovuta ripartire da me stessa». Tutto da capo, anzi, “Tutto daccapo”. Si intitola così il nuovo album di Gabriella Martinelli, cantautrice e polistrumentista nata alla musica come artista di strada, o “busker”, per chi ne capisce. Pubblico scelto, magari acchiappato per caso e poi fidelizzato, come succede spesso quando si comincia per strada. Si passa di lì e poi si resta o si torna. Dove? Nei teatri, nei festival, nei club dedicati. Ma ora? Dopo due anni blindati tra le mura domestiche, strizzando l’occhio ai social molto più dell’indispensabile, investendo sulla virtualità di un contatto via etere senza sensi di colpa, cos’è successo agli artisti, al pubblico, al respiro soffocato da una maschera di protezione? Lei è ripartita con un album esplosivo, energizzante, in cui «ogni brano ha il suo vestito: pop, rock, indie, elettronica», anticipato da un singolo decisamente euforico, “Dove vivi tu”, in cui dice, paro paro, «non mi faccio domande e vivo come se non ci fosse un futuro».
Potrebbe sembrare un atto di resa…
«Tutt’altro. È un’esortazione a vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo dando valore alle piccole cose, qui e ora. È un invito a reinventarci dopo questo periodo difficile. La domanda di questi ultimi giorni è come fare a mettere tra parentesi quello che sta succedendo nel mondo. Ora mi sembra banale qualsiasi cosa».
E quale potrebbe essere la risposta?
«Sforzarsi di concentrarci sulla bellezza, fare squadra per lanciare un messaggio di pace, dare una mano dove si può. Con il lockdown abbiamo imparato a uscire dalla nostra comfort zone, a fare del tempo un’occasione. Ora è più difficile ma bisogna pensare che una via di uscita sia sempre possibile».
Per lei la via di uscita è stato comporre e lavorare al nuovo album. In cosa questo album risente di questo periodo?
«È più emotivo e diretto ed è il risultato di tanti apporti diversi, senza paura di raccontare la fragilità e l’amore verso noi stessi, lontano da stereotipi di genere e da una società classista che ci vuole conformisti. Credo che l’arte e la cultura abbiano un ruolo importantissimo in questo senso ma non sono ancora abbastanza sostenute, gli spazi languono e agli artisti si pensa come occasione di divertimento più che di riflessione».
Nel brano citato parla di amore libero e stupido: in che senso “stupido”?
«Nel senso dello stupore, dell’incoscienza, della leggerezza calviniana. Non credo che alla serietà sia necessariamente legata la pesantezza. Qui mi è stato di grande insegnamento di vita Erriquez (il leader della Bandabardò morto lo scorso anno, presente nella canzone che chiude il disco, “Si può essere felici”, ndr) che mi ha fatto promettere di guardare alla leggerezza come a un’opportunità».
Come vi siete organizzati con il lavoro in pandemia?
«Abbiamo comunicato attraverso gli schermi. Dietro c’è un grande lavoro».
A proposito di schermi, come si rapporta con i social?
«I social non vanno demonizzati perché, soprattutto in questi momenti, hanno accorciato le distanze e, se usati bene, possono essere un’ottima cassa di risonanza. D’altra parte mi viene in mente “1984” di Orwell, il grande occhio che ci osserva e controlla, e mi inquieta la possibilità di perdere il contatto umano diretto. Inoltre, c’è il rischio che si diventi schiavi delle statistiche, dei like».
Tornando all’album, oltre alle tante contaminazioni e citazioni, c’è una canzone con Erica Mou.
«“Un’altra carezza”. Abbiamo le stesse radici, siamo amiche e ci siamo spesso ripromesse di collaborare. Adoro la sua vocalità levigata, è come se ci regalassimo una carezza a vicenda».
A un certo punto cita Bob Marley. Quali sono i suoi riferimenti musicali?
«Il brano è nato di getto in un pomeriggio della scorsa primavera mentre lo ascoltavo in sottofondo. Tra i miei riferimenti, David Bowie e Lucio Dalla che hanno avuto la capacità di rinnovarsi continuamente. I loro lavori non si somigliano e testimoniano l’incontro di universi diversi, la contaminazione di generi».
Contaminazione che lei ha coltivato anche attraverso il progetto Come to My Home.
«Un progetto nato in Africa per volontà del Ministro della Cultura marocchino che unisce artisti da tutto il mondo con l’obiettivo di fondere arti, culture e nazionalità. Ognuno porta un suo brano e poi ci si incontra in un progetto comune. Abbiamo fatto concerti in giro per il mondo, da Casablanca alla Francia a Gibilterra».
Nel 2019 partecipa al Festival di Sanremo nella categoria “Nuove proposte”, in coppia con Lula, con una canzone forte, il cui riferimento potrebbe essere l’Ilva di Taranto, “Il gigante d’acciaio”. Com’è nata l’idea di portare un brano così?
«Ho provato a dare voce a chi non ce l’ha. Io sono di origine tarantina ma quello che volevo lanciare era un messaggio più ampio anche nell’ottica di coinvolgere altri artisti non pugliesi. Di Ilva, infatti, ce ne sono tante e il paradosso è sempre quello di dover scegliere tra salute e vita e lavoro. La musica ha anche il compito di smuovere le coscienze».
Intende questo quando dice che bisogna scherzare con il fuoco?
«Sì, intendo proprio dire che bisogna provocare per smuovere le cose…».