La realtà su tela di Daniele Fissore «era la sua vita»

La moglie Miresi ricorda l’artista saviglianese: «Comunicava davvero attraverso le sue opere»

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Si è inaugurata il 5 marzo al Palazzo Muratori Cravetta di Savigliano la mostra “Daniele Fissore, pittore iperrealista”, curata dal professor Francesco Poli e dedicata all’artista saviglianese, che ne ripercorre i cinquant’anni di carriera. Fissore fu esponente di punta della pittura iperrealista, derivata dalla Pop Art degli anni Sessanta negli Stati Uniti. Maestro nell’arte che si confronta sul rapporto tra fotografia e pittura, Fissore è noto per i suoi infiniti campi da golf e le marine in cui i paesaggi diventano protagonisti e la presenza umana è punteggiata, minima. Ma le sue opere sono anche qualcosa di diverso, come sottolinea Miresi Fissore, la moglie del pittore: questa mostra ce lo presenta a tutto tondo, dalle opere giovanili fino a quelle più legate alla sperimentazione.

Come nasce l’idea di questa esposizione?
«Dall’incontro e la sinergia tra diverse realtà del territorio: Piemonte Musei, l’associazione Be Local, la città di Savigliano e la nostra famiglia. Con le cinquanta opere esposte desideriamo portare a conoscenza del pubblico le varie tematiche affrontate dall’artista. Sebbene mio marito sia conosciuto soprattutto per i campi da golf e le marine, si è occupato in realtà di soggetti molto diversi nella sua carriera iniziata da giovanissimo, dalle cabine telefoniche ai picnic, fino agli eroi risorgimentali e ai video spenti. Siamo felici dell’entusiasmo del pubblico, nei primi tre giorni abbiamo accolto oltre cinquecento visitatori».

Chi ha seguito la creazione della mostra nello storico Palazzo Muratori Cravetta?

«La struttura della mostra è stata realizzata grazie alla consulenza dello storico d’arte Francesco Poli. Ma il contributo di Simone Fissore, nostro figlio, è stato fondamentale, si è occupato infatti di ogni dettaglio della mostra, partendo dal reperire le opere, molte delle quali appartengono a collezioni private, oltre che alla nostra famiglia».

Come si struttura l’esposizione?
«Sono presenti una cinquantina di opere organizzate in senso cronologico. Non è stato difficile creare questo percorso perché lui era solito affrontare un tema alla volta, esaurirlo, e poi passare al seguente. Nella prima sala è esposta addirittura una tela del 1965 quando era diciassettenne, prima ancora che la sua passione diventasse una vera professione. Dopo una prima parte dedicata ai lavori sulle cabine telefoniche, in cui le trasparenze lasciano già intuire il messaggio di una realtà multiforme e poliedrica, si continua con opere più marcatamente iperrealiste, in cui è difficile distinguere il confine tra pittura e fotografia, che celebrano nuovamente il tema dell’inganno nascosto dietro alla realtà, spesso trasfigurata dal modo in cui essa ci viene presentata».

Le varie fasi artistiche trovano un collegamento diretto con epoche diverse della sua vita?
«Certo. Era impossibile per mio marito separare la sua vita privata da quella professionale, dipingere era per lui indispensabile. Era una passione che prevaricava quasi la sua vita stessa. Si potrebbe dire che comunicasse veramente con l’esterno attraverso le sue opere».

Ci può fare un esempio?

«La nostra famiglia ha vissuto un anno a Londra, nel 1980, e lì mio marito attorniato da quell’ambiente culturale e paesaggistico diverso da quello italiano, iniziò a dipingere la serie dei picnic, da cui nacque una bella mostra alla House Gallery, che veniva dopo le sue opere con impegno sociale più evidente. Era l’inizio della scoperta del paesaggio e della natura, in Inghilterra venne molto colpito da quel colore verde intenso così diverso da quello che si vede in Italia e, in generale, dallo stile di vita inglese. Erano gli anni Ottanta e a Londra, una metropoli, aleggiava un senso di grande libertà e tolleranza che non aveva mai sperimentato prima nella quotidianità. Questo vissuto lo ha portato ad elaborare il tema delle distese di verde dei green in cui l’elemento principale è la “civilizzazione” della natura. Lui amava la natura proprio quando la poteva ammirare governata. Come nel nostro giardino dove tutto sembra naturale mentre ogni particolare è stato studiato con cura».

Anche qui, vede? Torna l’eterno gioco tra quello che appare e la realtà, una relazione che tanto lo affascinava. Come persona com’era?
«Amava certamente la vita ma era piuttosto solitario. O meglio, era autosufficiente perché la pittura compensava tutto. Questa passione, in quanto smisurata, non era sempre facile da amministrare. Gli artisti sentono in modo particolare, elaborano le loro emozioni più che altro attraverso le loro opere. E lui non si scostava da questo concetto, comunicava con il mondo principalmente attraverso le tele. Mio marito aveva poi un legame fortissimo con la famiglia, noi due siamo stati sposati per cinquant’anni e abbiamo cresciuto insieme tre figli».

C’è un quadro che le parla particolarmente di lui?
«Un ritratto di me seduta su una sedia rossa. Ci mise tre anni per terminarlo».

E la fece rimanere in posa molto?

«No, usava delle fotografie solitamente. Seguiva però lui la regia, disponeva i soggetti e gli oggetti come li aveva in mente. Il fotografo doveva solo scattare».

Cosa ricorda di suo marito quando dipingeva?

«I dettagli. Ad esempio raccontava spesso di quanto fosse grato per aver frequentato il liceo classico. Sosteneva gli avesse insegnato a organizzare il suo pensiero, momento fondamentale prima di iniziare a dipingere. Questa esperienza gli era servita, lo ripeteva, perché gli aveva fornito un metodo con cui affrontare ogni opera, fin dal primo segno. Una tela bianca può far paura».