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Ci vuole geopoesia per capire la guerra

L’arte della cartografia secondo Laura Canali: «Le mie mappe tra scienza e Cesare Pavese»

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Si intitola “Argonauti, un canto per Recco” il progetto di Sergio Maifredi dedicato al­la città di Recco rasa al suolo nella seconda guerra mondiale. E così anche la mappa geopoetica creata da Laura Ca­nali, artista e cartografa di lungo corso e comprovati crediti che sul suo sito scrive «dalla geopolitica alla geopoesia è bastato lo spazio bianco di una linea da tratteggiare per farne esplodere i confini, è bastato il bisogno di andare oltre la cartografia per entrare in un immaginario dei colori».

Il termine geopoesia è ancora appannaggio di una stretta cerchia di addetti ai lavori o di appassionati. Ci spieghi meglio in cosa si distingue dalla geopolitica.
«La geopolitica è lo studio della relazione tra geografia fisica e azione politica e deve essere fedele e oggettiva: sono le mappe che aiutano a comprendere il mondo e le sue trasformazioni; la geopoesia nasce anche da altre sollecitazioni, come la poesia, appunto, o la narrativa e il risultato è anche frutto di una elaborazione, di un pensiero, di emozioni, partecipazione, coinvolgimento».

Quindi si può dire che la geopoesia, essendo più libera, è quasi una forma d’arte?
«Sì, ed proprio in quanto forma d’arte che può essere più libera. L’arte serve a sensibilizzare, a riportare l’attenzione su argomenti diversi, sia legati al pianeta sia a far luce su eventi passati, lontani nel tempo, perché non vengano dimenticati».

E quindi diventa centrale anche il discorso sulla memoria. Il caso di Recco è uno di questi. So che è prevista una drammaturgia a partire dalle storie locali di persone del luogo in vista di uno spettacolo in scena il 10 e l’11 giugno. Lei invece come sta sviluppando questo progetto?
«Anch’io, attraverso una serie di laboratori online, ho ascoltato tante storie dagli abitanti del luogo. Ricordi, sensazioni, sogni, stili di vita. Sono nate suggestioni interessanti. Rec­co è più di un paese e ha una vita diversa da Nervi, per esempio, che vive proprio di mare. È uno snodo importante, anche ferroviario. Il primo dei tanti bombardamenti che distrussero la città è del 10 novembre 1943 e lo scopo era distruggere il ponte della ferrovia ma anche dopo che il ponte crollò, i bombardamenti continuarono».

C’è anche un’altra data, questa volta gloriosa, ricordata in questa occasione, domenica 2 agosto 1959, il primo scudetto della Pro Recco in serie A, conquistato dopo una partita memorabile disputata a Trieste. Un successo diventato mondiale, nel corso dei decenni successivi.
«Pensi che prima di allora la squadra non aveva nemmeno una piscina dove allenarsi e anche le gare venivano disputate al porto. Per questo non potevano partecipare a competizioni nazionali».

Come pensa di rendere graficamente la pallanuoto?

«Sto cercando un simbolo adeguato, vedremo».

Lo scenario di un bombardamento, in questi giorni, ci porta immediatamente alla situazione in Ucraina. Quali scenari pensa si possano profilare a seguito dell’invasione russa?
«Sugli scenari futuri non mi sbilancio ma la carta a colori della settimana pubblicata su Limes è dedicata a uno degli episodi più importanti della seconda guerra mondiale per l’Italia: la ritirata del Corpo d’armata alpino dalle sponde del fiume Don, Urss, nel gennaio 1943. Da qualche mese ho finito di leggere “Il sergente nella neve, Ritorno sul Don” di Mario Rigoni Stern e ho sentito il bisogno di disegnare una carta geopoetica per non dimenticare gli alpini caduti, dispersi o sopravvissuti alla battaglia di Nikolaevka del gennaio 1943, sul fronte sovietico della seconda guerra mondiale. Sono gli stessi luoghi dove adesso si sta combattendo, nei quali Rigoni Stern aveva voluto tornare in tempo di pace. È morto nel 2008 e non potrà vedere che quei luoghi, tra il Donetz e il Don, oggi sono di nuovo in guerra».

Quali sono le difficoltà incontrate nel ricostruire questa mappa storica?
«I luoghi raccontati da Rigoni Stern sono difficilissimi da trovare, ci sono addirittura due Nikolaevka, scritte in modo leggermente diverso, lo spazio complessivo è molto piccolo, non più di 200 chilometri e inoltre non ci sono rilievi montuosi di riferimento. L’appiglio da cui sono partita è stata la confluenza del fiume Kalitva con il fiume Don, un punto particolare perché lì il Don piega a 45° verso est, come un gomito alla cui estremità si immette questo piccolo fiume, il Kalitva. In questo innesto di fiumi c’è la città di Novaja Kalitva da dove la Divisione Julia parte per uscire dalla sacca».

Parliamo invece della funzione di una carta geopoetica per raccontare l’ambiente, i cambiamenti climatici, il problema del surriscaldamento globale e dei flussi migratori. Come viene reso graficamente lo spostamento di popolazioni da un continente all’altro?
«Io uso delle frecce, ma i flussi sono solo in minima parte da continente a continente. La maggior parte delle migrazioni avviene all’interno della stessa Africa, e non solo a causa del surriscaldamento».

Come renderebbe invece l’immagine di un teatro bombardato, o di un ospedale?

«Con un segno di esplosione e una nota tipo didascalia che spieghi che ci troviamo in un punto di non ritorno».

Ha anche illustrato il percorso dell’aria dal deserto del Sahara fino alla foresta amazzonica in una mostra di un po’ di anni fa, a Milano, dal titolo mutuato da una frase di Cesare Pavese, “La natura non è un soffio”.

«Una frase da “Il mestiere di vivere”, in cui Pavese annota pensieri e riflessioni che mi colpiscono molto. In quell’occasione avevo realizzato una serie di carte a colori stampate su carta fotografica, dove gli elementi scientifici erano evocati da forme artistiche emblematiche».

Qual era in quel caso il senso della zattera?

«Suggerire l’idea di una società precaria, in cui il progresso a tutti i costi, i grattacieli, le fabbriche poggiano su un suolo fragile, conosciuto solo in parte. Noi conosciamo meglio l’universo e quello che sta fuori di noi che il nostro sottosuolo».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco