È andato e tornato, portandosi dietro un carico di polemiche. Ma andare sui luoghi di guerra e raccontare l’orrore non è esattamente un esercizio di stile. Al rientro dall’Ucraina, Massimo Giletti ha raccontato a IDEA quello che ha visto. «È stata un’esperienza molto intensa – dice il giornalista di La7 -. Ero già stato in altre zone di guerra, però in Ucraina la situazione è più complicata, anche perché riguarda da vicino tutti noi. Mi sono spinto fino a Nikolaev che si trova in una zona pericolosa, con i colpi di artiglieria dei russi in sottofondo e, purtroppo, anche i missili come quello che è caduto su una caserma lasciando molti morti. Quando siamo tornati sulla strada per Odessa, sulla corsia da dove eravamo arrivati c’era una voragine causata dall’artiglieria. Sono cose che non si dimenticano».
Che cosa ha trovato a Odessa?
«È una città intrisa di cultura russa, ha alcune bellissime e storiche statue come quella dello scrittore Puskin e della zarina Caterina II, mentre non ne ha neppure una, per esempio, del nazionalista ucraino Bandera. È molto europea, però si parla prevalentemente il russo. Eppure non ho trovato neanche un filorusso. Qui il partito putiniano aveva preso il 20 per cento, ma nessuno accetta questa guerra in nessun modo. Devo dire che quella è gente che non molla. Quando chiedevo alle persone perché non potessero cedere il Donbass per un eventuale accordo per la pace, loro rispondevano che considerano quella terra ucraina. Quindi è difficile immaginare una soluzione».
Che cosa manca per costruire un auspicabile accordo di pace?
«L’Europa è assente. Perché gli ambasciatori europei hanno lasciato subito Kiev? Se fossero rimasti, magari avrebbero fornito una copertura. Bisogna avere coraggio, non si può scappare».
Ha vissuto situazioni di pericolo?
«Quando percorri trecento chilometri sull’unica strada agibile, in mezzo a una carovana con camion che trasportano carburante, carri armati, mezzi blindati, se vedi arrivare un aereo, ti rendi conto che sei sotto tiro. Ho provato ansia, il viaggio di 150 chilometri è durato quasi quattro ore , tra posti di blocco e pericoli legati alle mine e a possibili attacchi».
Veniamo al punto: le aspre polemiche seguite al suo collegamento da Odessa, vicino alla soldatessa caduta sul campo.
«Da lontano magari sembra tutto più semplice. Le polemiche su di me mi hanno dato tristezza. A chi mi ha attaccato dico: perché non venite con me? Io sono andato sul posto e ci tornerò, venite. Per raccontare la guerra bisogna andare dove c’è la guerra. Prima dell’Ucraina sono stato in Afghanistan, Iraq, Kurdistan, Etiopia e Somalia proprio perché credo sia importante vedere con i propri occhi che cosa accade».
La accusano di aver usato gli scenari di guerra per fare audience.
«Mi hanno criticato per le immagini dure che ho mostrato. La guerra non ha filtri, tutti devono vedere. Bisogna rendersi conto, anche da vicino, che cosa sia la guerra e quale siano le conseguenze della violenza. Diceva Metastasio che ognuno valuta l’altro in base al cuore che ha. Qualcuno forse ha un cuore un po’ particolare».
È rientrato in Italia con più preoccupazione?
«Dopo aver visto i corpi dei ragazzi morti, per ore e ore nessuno in macchina ha detto una parola. Tutto questo va fermato. Mi sembra però che ci sia una strana attesa, si inviano armi quando invece bisognerebbe costringere a tutti i costi Putin a sedersi attorno a un tavolo. Sono preoccupato anche per le aziende italiane, oltre che per l’economia del mondo. Abbiamo già avuto il Covid e ora la guerra: ci rendiamo conto?».
Che cosa si deve fare?
«Si deve avere il coraggio di andare là, entrare in una specie di conclave e non uscire finché non c’è una svolta. Questa secondo me è l’unica strada, perché dipingere Putin come un pazzo è fin troppo semplice. Due giorni prima degli attacchi, il leader russo era andato in Azerbaigian per prendere una quota di Petronas con la russa Lukoil nella prospettiva di gestire anche il Tap, il condotto che arriva in Italia. Quindi, Putin è tutt’altro che pazzo. Ora, la guerra è una vergogna, ma non ci si può sorprendere se siamo arrivati a questo punto. La crisi del Donbass esiste infatti da otto anni, nel frattempo ci sono stati (disattesi) gli accordi di Minsk. Chi doveva vigilare? Aver sottovalutato certe situazioni è stato un grave errore. Kissinger nel 1992 disse: è vero che il comunismo è morto, ma la libertà in questi paesi è ancora “in prova”. Bisogna aiutarli, aggiunse lo statista americano, altrimenti un giorno la Russia imperialista potrebbe andare fuori rotta. È accaduto. Li abbiamo lasciati soli invece di accompagnarli nella transizione democratica».
È d’accordo con la linea politica del premier Draghi che ha annunciato maggiori investimenti militari e il progetto di una difesa comune europea?
«Ben vengano queste misure, se serviranno a far capire alla Russia che non sarà facile continuare sulla strada intrapresa. Ma temo che non basterà. Si dovrebbe, allo stesso tempo, lavorare incessantemente per un’operazione diplomatica. I capi delle democrazie dovrebbero andare tutti a Mosca, punto e basta».