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«Amo le langhe e quei pomeriggi con Angelo Gaja»

Joe Bastianich a Serralunga: «Qui ho cominciato a scoprire l’Italia, i tajarin al tartufo e il Barolo»

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Joe Bastianich sarà alla Fondazione Mirafiore di Serralunga d’Alba domani (venerdì 8 aprile) per la rassegna Laboratorio di Resistenza Permanente.

Ci racconta di questo appuntamento e del suo rapporto con la famiglia Farinetti?

«Sono davvero felice di partecipare. Immagino l’incontro come un momento tra amici, una chiacchierata conviviale con Paola, la padrona di casa, e chissà magari anche Oscar. Con la famiglia Farinetti ho un rapporto speciale di amicizia. Dal 2011 in collaborazione con loro porto negli Stati Uniti Eataly, partendo da New York, Chicago, Boston e più recentemente Los Angeles, Las Vegas, Dallas e Toronto in Canada. Questa serata sarà quindi un ritrovarsi, io mi metto a disposizione, sia per temi personali che lavorativi, per svelare qualche aneddoto e segreto. Porterò con me la mia chitarra, poi chissà, vediamo che succede».

Che rapporto ha con le Langhe, con il territorio, il cibo e i vini?
«Le Langhe sono tra le zone più belle che ho mai visto, tra quelle che ho amato di più nei miei primi viaggi alla scoperta dell’Italia. Fin dagli anni ’90, quando alla ricerca delle mie radici italiane ho esplorato il vostro Paese in lungo e il largo, dal Nord fino a Pantelleria, scoprendo usi, tradizioni, culture e conoscendo persone del luogo. Mi ricordo ancora i pomeriggi passati con Angelo Gaja, Mascarello e tanti altri. È una terra che mi ha accolto e devo dire anche un po’ adottato».

Quali sono i piatti che ama riproporre nella sua cucina? E i vini?
«Nei nostri ristoranti negli Stati Uniti ovviamente non mancano i grandi classici, ma anche alcune rivisitazioni e interpretazioni. Se parliamo di Piemonte, carne cruda, tajarin, plin, tartufo, cardi, bagnacauda. A casa invece, perché pur essendo un ristoratore e non uno chef, tocca a me cucinare per la famiglia, perché diciamocelo sono proprio bravo. Per me non c’è molto di meglio di un bel piatto di tajarin al tartufo, in stagione, un calice – ma anche una bottiglia – di Barolo e la giusta musica in sottofondo».

La musica ritorna spesso nei suoi racconti, è così importante per lei?

«La musica è sempre stata parte della mia vita. Fin da bambino è stato un modo per cercare di integrarmi – da figlio di immigrati – nella società americana. Era un modo per potermi sentire come i miei compagni, uguale a loro, allo stesso livello. Nonostante io andassi a scuola con abiti di seconda mano e strani – per loro – mangiavo intingoli italiani sbrodolanti per pranzo, come le melanzane alla parmigiana o la trippa invece che sandwich al burro di arachidi e gelatina, immacolati. La musica non conosce confini. Amo artisti come Led Zeppelin, David Bowie, Ramones e Rolling Stones. Attualmente suono con la band La Terza Classe: per me scrivere canzoni è una sorta di terapia, la musica rappresenta l’espressione più pura, l’emozione più vicina al cuore».

Il suo rapporto con Slow Food e Carlin Petrini?
«Sia a livello personale sia nel mondo professionale ne ho vissuto un po’ la nascita, ne ho seguito la storia che è stata incredibile. Dalle Langhe una storia che ha avuto impatto globale. E sono certo che sono solo all’inizio».

Quali sono i suoi nuovi progetti di lavoro?
«Ci sono tante cose in ballo, sia in tv che lato musicale. A breve annuncerò un paio di novità, due progetti a cui sto lavorando da mesi. Partirò anche, insieme a La Terza Classe, per un nuovo tour estivo a ritmo di bluegrass, pubblicheremo il nostro primo disco insieme. Continuerete a vedermi in tv come inviato speciale per Le Iene, sto finendo di scrivere un nuovo libro che uscirà in autunno, insomma diciamo che decisamente non mi annoio».

Che cosa ha rappresentato per lei MasterChef?

«Una grande opportunità. Un bel momento ma anche una grande sfida personale».

Con il programma Le Iene è stato ai confini con l’Ucraina proprio i primi giorni di guerra. Ci racconta la sua esperienza?
«Decisamente forte e toccante. Non potevo non andare. Ero in aeroporto a Venezia, destinazione New York e non me la sono sentita di partire. Dovevo andare a vedere con i miei occhi, cercare di fare il possibile. Per questo siamo andati in spedizione con Le Iene, per cercare di fare la nostra parte ma anche documentare quello che stava succedendo dal lato umanitario, oltre che bellico. Abbiamo viaggiato tutto il venerdì, il giorno dopo l’invasione, e siamo arrivati sabato mattina all’alba ai confini di Polonia e Ucraina, di fronte a Leopoli e quello che abbiamo visto mi stringe ancora il cuore. All’epoca non c’era nulla ad attendere chi varcava il confine. Solo tantissimi polacchi, privati cittadini come noi, che facevano la spola con le loro auto portando generi di prima necessità a chi arrivava o cercando di farli passare, nella coda chilometrica di auto e persone a piedi, al di là del confine. Poi nei giorni seguenti la situazione si è strutturata sempre di più, sono arrivate le tende, cibo caldo eccetera. Molti europei arrivavano con le loro auto a prendere parenti, amici che riuscivano a passare in Polonia ma non mi dimenticherò mai di chi arrivava – a piedi – soprattutto donne e bambini, che non avevano nessuno ad aspettarli. Ho visto tante somiglianze con i racconti dei miei nonni, esuli istriani. Stessi sguardi rassegnati, impauriti ma anche determinati e fieri».