Sono numerosi i giornalisti, soprattutto statunitensi, che si sono negli anni appassionati alle Langhe. D’altro canto diverse sono anche le voci di Expat che essendosi trasferiti qui dagli Usa, dall’Australia o dal nord Europa raccontano sui social la loro vita nei territori premiati dall’Unesco. Non molti invece sono gli appassionati che, pur vivendo altrove, possono vantare di aver visitato il nostro Paese oltre settanta volte negli ultimi decenni come Tom Hyland, wine writer e grande conoscitore dei vini della nostra penisola. Via Zoom parliamo del mondo enologico, ma anche di turismo in crescita e del dialetto piemontese, veicolo comunicativo indispensabile per chi desidera una conoscenza non superficiale del genius loci di queste colline.
Cosa l’ha portata in Piemonte per la prima volta?
«Sono arrivato qui oltre venti anni fa. Ero già stato in Italia e la vostra regione mi incuriosiva, così un anno fa ho semplicemente allungato il mio soggiorno in Toscana alla ricerca di nuovi interessanti vini e produttori e ho preso un treno per salire fino alle vostre vigne».
Ormai si può dire che Lei conosca il Piemonte. Quali evoluzioni ha notato in questi due decenni di frequentazione?
«In realtà i miei soggiorni sono decisamente mirati ad incontri di lavoro, chiacchierate con i produttori e visite in cantina, per cui ho poco tempo per il resto e così, onestamente, ho visto pochi cambiamenti. Al contrario, una mia amica scrittrice che torna spesso nelle Langhe per tour dedicati all’enogastronomia mi ha fatto notare un certo aumento di turisti nelle zone più famose come a Barolo, nelle cui stradine talvolta non si riesce quasi a camminare durante la Fiera del tartufo. Anche in Toscana alcuni luoghi come Montalcino sono presi d’assalto dalle folle di turisti internazionali. E quelli sono esattamente i luoghi che io accuratamente evito. Preferisco le vigne».
Quando viene in Piemonte come si svolgono le sue giornate?
«Principalmente incontro i produttori, sia gli amici sia i nuovi che sono interessato a scoprire. Parlo con loro e ascolto le storie, le descrizioni delle ultime vendemmie e delle novità in cantina. Poi assaggiamo insieme i vini, il momento migliore. Sono giornate intense che mi richiedono grande concentrazione, mi resta poco tempo per il resto».
Lei che ci dedica seminari e webinar, ci racconta che cosa rende i vini piemontesi così differenti dal resto del panorama enologico italiano?
«Prima di tutto il Piemonte, come anche la Toscana, la Campania e un po’ tutte le regioni italiane, sono ricchissime di varietà indigene, una grande ricchezza da preservare. Poi avete il Nebbiolo, questo vitigno unico dà vini che sono i miei preferiti tra gli italiani e, mi spingerei a dire, tra quelli di tutto il mondo, parlando di vini rossi. Questa varietà regala un vino capace di evolvere nettamente con il passare del tempo e in grado di raggiungere un’estrema longevità. Si dice che alcuni Baroli siano difficili da apprezzare appena immessi sul mercato. Penso soprattutto a quelli dalle caratteristiche più “maschili”, estremamente tannici, come quelli di Serralunga e Monforte, ma anche alcuni più naturalmente morbidi, dal carattere più “femminile” come quelli delle colline verso La Morra. In realtà questo è vero solo in parte, perché se si pensa ad un’annata come l’ottima 2016, tanto il Barolo quanto il Barbaresco erano bilanciati, morbidi e godibilissimi già appena usciti. Si potrebbe dire qualcosa di simile per altri grandi vini del sud come Aglianico, Taurasi o Sangiovese, che offrono complessità e longevità, ma io mi sono innamorato del Nebbiolo».
Una differenza con la Toscana?
«Amo il fatto che in Piemonte gli attuali imprenditori del vino arrivino da famiglie di agricoltori. In Toscana, al contrario, gli investimenti sono stati appannaggio di famiglie facoltose, arricchitesi spesso attraverso altri tipi di business. La maggior parte dei produttori piemontesi invece è alla terza o quarta generazione, si sente che hanno mantenuto un forte legame con la terra e con la loro anima contadina. Sono consapevoli e orgogliosi dell’eredità lasciata loro da chi li ha preceduti e questo fa la differenza».
In questi anni ha imparato un po’ di dialetto piemontese?
«Certo. La prima è stata “Anduma!”. Grazie al dizionario italiano-piemontese che un amico di Barbaresco mi ha regalato sto imparando altri termini nuovi. Diciamo che conosco già le parole più importanti come “Ciabòt” e, soprattutto, “Bevuma!”».