«Mi sento un po’ un clandestino qui. Sì, ho girato alcuni film come Dario Argento. Ma chi è davvero questo Dario Argento? Faccio i film a suo nome, ma non so veramente chi sia. Ha attinto dalla pro- fondità dei miei sogni, dall’arte, dall’architettura, insomma da tutto. Ovviamente anche dal cinema. Ma guardandomi intorno adesso, provo uno strano effetto. La mostra l’ho vista privatamente e devo dire che mi ha riportato indietro nel tempo, dentro ai miei film. Alcuni forse li ho capiti meglio adesso, proprio guar- dando le immagini». Le prime parole di Dario Argento sembrano le frasi di un film nel film. Il maestro che recita una parte all’interno di una scena che parla di lui. Lo sguardo assorto, se non stralunato, rimanda alla materia delle sue opere.
Autoironia, senso scenico e ovviamente mistero. Argento non ha deluso le (alte) aspettative di chi – Domenico De Gaetano e Marcello Garofalo in primis – ha strutturato la prima mostra dedicata al mae- stro del brivido horror, icona di un’Italia che non c’è più e soprattutto, narratore di una Torino inevitabilmente scom- parsa, consegnata alla memo- ria cinematografica. O forse semplicemente finita nelle pieghe di un’altra dimensio- ne. Che al Museo Nazionale del Cinema, ovvero alla Mole Antonelliana – luogo esoterico e quindi sede più che adatta – viene svelata fino al 16 gen- naio del 2023.
La mostra si intitola “Dario Argento – The exhibit”, un omaggio al genio e all’opera del cineasta, visionario mae- stro del thriller; un percorso cronologico attraverso tutta la sua produzione, dagli esor- di con “L’uccello dalle piume di cristallo” (1970) fino al suo ultimo lavoro “Occhiali neri” (2022), recentemente presentato al Festival del Cinema di Berlino nella sezio- ne Special Gala. I pezzi espo- sti provengono dalle collezio- ni del Museo Nazionale del Cinema, dell’Archivio Foto- grafico della Cineteca Nazionale – Centro Sperimentale di Cinematografia e di numerosi collezionisti privati, con importanti contributi da parte di professionisti del cinema quali Sergio Stivaletti (effetti- sta di molti film di Argento da “Phenomena” del 1985 in poi), Luigi Cozzi, stretto colla- boratore di Argento fin dagli esordi, Franco Bellomo, Pupi Oggiano, Gabriele Farina e Carlo Rambaldi, uno dei più importanti artisti degli effetti speciali a livello mondiale.
E poi ovviamente c’è Torino. Presente nelle immagini dei film con la casa dell’enigmista che si trova in via Vela e il cimitero monumentale di “Il gatto a nove code”. Ma anche il giardino Lamarmora di “4 mosche di velluto grigio”. E ancora: piazza Cnl e Villa Scott in “Profondo Rosso”, il teatro Carignano in “Non ho sonno”, la libreria di via Po in “La terza madre”.
In questi luoghi della città e in altri ancora si è sviluppata la lucida follia cinematografica del regista romano, che ammette: «Se non fosse per gli affetti e per la famiglia, per cui sono legato a Roma, vorrei davvero trasferirmi in questa città nella quale mi sono sem- pre trovato bene. Ci tornerò per girare ancora altri film e allora potrò anche godere della straordinaria cucina pie- montese». Commosso, Dario Argento ha continuato ad ammirare le immagini della mostra: «Non avrei mai immaginato di essere celebra- to in questo modo: tutti i miei film, le musiche, oggetti, abiti, manifesti. È giusto che questa avvenga in una città che è il mio feticcio, la mia città ideale, solo Torino pote- va fare questo per me». E un contest pubblico intanto ha identificato in “Profondo Rosso” il film più iconico per rappresentare la città.
«Mi hanno proposto un film da fare in Francia .- ha rivela- to Argento -, a Parigi, ma non so se lo farò». E ancora, ha confidato la sua fonte d’ispi- razione: «Uno dei film che ho amato di più è stato “Psyco” di Alfred Hitchcok: un capola- voro. Io avevo studiato la sceneggiatura di Joseph Stefano tratta dal racconto di Robert Bloch e mi sono accorto che non era granché, una sceneg- giatura un po’ banale in certi momenti, con cose già viste. Il fatto che il film sia diventa- to un capolavoro della storia del cinema lo si deve all’ap- porto di Hitchcok: per come ha diretto gli attori, come li ha scelti e messi in scena, per le inquadrature dei luoghi luo- ghi. Insomma non era una questione di sceneggiatura ma di grande regia… La sua macchina da presa che vola, gira su se stessa. E pensare che non c’erano effetti specia- li all’epoca. L’importante non
è la storia, ma è come si mette in scena la storia, quella è la cosa vera».