Questa settimana il nostro interlocutore è Andrea Pamparana: l’uomo giusto con cui parlare di attualità.
Il suo ultimo libro “Tiffany” è un altro esempio di sogno americano?
«È la storia romanzata di una famiglia che, partendo da 50 dollari presi in prestito nel 1857 è diventata un brand mondiale nel giro di poco tempo. Romanzata perché così è divertente per chi scrive e rende più agile la lettura. Tra il 2006 e il 2011 ho scritto tre libri sul Medioevo, mi intrigava la storia di quel mondo, il recupero delle origini della nostra cultura. Poi sono approdato a Carl Gustav Jung, di cui ho scritto la biografia, non era solo psichiatra ma un filosofo con vastissimi interessi, morto in piena guerra fredda. Sono occasioni per parlare del contesto storico e dei luoghi. In “Tiffany” ci sono capitoli sulla guerra di secessione, il momento in cui i coloni inglesi si trasformano in americani veri. In seguito, nelle grandi città americane, è nato il capitalismo moderno».
Le conseguenze di quel cambiamento epocale ci hanno portato al contesto di oggi?
«Io sono un grande appassionato del “De bello gallico”. Non è che la conquista della Gallia sia nata per il capriccio di un generale, era una necessità di espansione del futuro impero romano. Alessandro Magno, morto giovanissimo, conquistò mezzo mondo con l’obiettivo di costruire una città (Alessandria d’Egitto) che raccogliesse tutto il sapere in un’immensa biblioteca. In fondo Internet nasce con lo stesso intento: riunire in un unico luogo tutta la conoscenza del genere umano».
La tecnologia ha accelerato queste dinamiche?
«C’è un fatto storico che racconto nel libro: la posa del primo cavo transoceanico tra Londra e New York. Prima le notizie della Borsa arrivavano da una sponda all’altra dell’Oceano in due settimane, via nave, con i plichi dei banchieri. Con il cavo coassiale ci fu un primo, enorme risparmio di tempo, anche negli affari: 16 ore. Tiffany si rese conto che era un fatto storico, comprò chilometri di questo cavo, ne tagliò alcuni pezzi, li mise in scatole di legno e al centro aggiunse una fascetta d’argento: “garantito da gioiellerie Tiffany”. Lo vendette con successo come gadget. È il simbolo di un certo spirito americano».
Dall’America all’Italia: che cosa resta di “Mani Pulite”, fenomeno che lei raccontò con le sue dirette?
«Le do un titolo: “Fu vera gloria? No”. Perché non siamo stati capaci di andare dietro le quinte e abbiamo fatto solo cronaca. Il testo che andrebbe portato nelle scuole è il discorso che Bettino Craxi fece nel luglio del ‘92 alla Camera dei Deputati. Di solito si cita solo il finale, quando dice “se qualcuno di voi ha mai preso soldi in maniera illecita, si alzi senza dichiararsi spergiuro”. È stato sempre interpretato come: siccome siamo tutti colpevoli, quindi siamo tutti innocenti. Da qui nasce la reazione popolare e la fine di quel mondo. Ma è anche l’analisi perfetta di un’Italia divisa tra due blocchi, legata all’America dal Piano Marshall, madre dell’Europa (vedi “Trattato di Roma”) e al tempo stesso terra di confine, con l’allora mondo comunista. Ora, se non studiamo quella storia non potremo capire il perché del terrorismo, oppure dello stragismo. Dell’Italia che ebbe un ruolo anche nella questione mediorientale con il colonnello Giovannone e il caso Piperno. Tutto questo per dire che la nostra storia non sempre è stata esemplare».
Ne parlerà in un prossimo libro?
«Lo sto scrivendo. Dico che con Mani Pulite abbiamo buttato il bambino con l’acqua sporca. Prendiamo la crisi energetica: d’accordo, oggi dipendiamo dalla Russia, ma il problema esiste da decenni. Da quando Enrico Mattei fu fatto fuori, con le “sette sorelle” e il coinvolgimento della criminalità organizzata. È sempre andata così. C’è stata la morte di Sergio Castellari, il misterioso suicidio dell’uomo delle partecipazioni statali. La morte in carcere di Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni, due giorni dopo il “suicidio” di Raul Gardini. Penso anche a Serafino Ferruzzi che a Chicago era accolto come un’autorità e diceva: la terra della Val Padana è la più fertile del mondo. “L’agricoltura è chimica”, sosteneva Gardini ipotizzando il il bioetanolo per carburanti e per materie plastiche non inquinanti e biodegradabili. Quel sogno viene abbattuto da elementi riconducibili alla finanza, da Cuccia con Mediobanca alla Fiat di Agnelli e Romiti. E dalla politica che prendeva tangenti e seguiva le indicazioni finanziarie. Sono stati proprio gli imprenditori a dare il via a Mani Pulite, non i politici».
Il risultato è che oggi dipendiamo dalle economie di altri paesi?
«Se il gas russo non va bene, non è che l’Algeria sia un esempio democratico. Vogliamo parlare degli Emirati Arabi? Tutto si lega a un tracollo economico causato dall’insipienza di una classe politica sostituita da un furbo imprenditore come Berlusconi che aveva capito di poterne prendere il posto e che lo fece inizialmente con personaggi di valore come Lucio Coletti, Antonio Martino o Marcello Pera, poi con Fini e l’area di destra. Ma ancora una volta, interviene la Magistratura. Il giudizio morale è pessimo, ma non quello penale, infatti viene assolto. Poi arriva l’antipolitica di Grillo, la formula deleteria dell’uno vale uno. Mi è capitato, a Roma, di restare imbottigliato in piazza Venezia, con i vigili inerti e il tassista che mi dice: diretto’, qui siamo tutti Fiorito. Come il leghista dei finanziamenti illeciti…».
Cambiando tema: abbiamo letto che lei ha affrontato lo stesso tumore dichiarato da Fedez.
«Un giorno mi telefona la collega di Vanity Fair e immagino voglia parlarmi di Tiffany. Mi intervista invece sul tumore endocrino di Fedez. E le mie risposte escono ovunque. Mi viene da ridere: quarant’anni di inchieste, scoop e libri, ma sarò ricordato per lo stesso Net (tumore neuroendocrino) di Fedez. Ma va bene così, purché se ne parli».
Conosce Fedez?
«Non lo seguo sui social, pur senza alcun giudizio moralistico. Se sai fare soldi e farli fare meriti rispetto. Dico solo che Fedez ha 32 anni, io ho avuto il Net a 67 e quindi avevo già sparato molte cartucce. Lui i conti li dovrà fare per sempre. Io una volta al mese faccio un’iniezione che non è chemioterapia. Ho avuto il tumore al colon, con metastasi lungo i linfonodi intestinali, sono stato operato al Gemelli dal professor Alfieri (che operò il Papa) e in teoria sono guarito. Seguo una terapia mensile e il bistrattato sistema sanitario mi fa pagare due euro un flaconcino che costa 1850 euro. Quando faccio l’iniezione sono stanco, ho dolori di pancia. Non so lui cosa dovrà fare, nel suo caso il pancreas è un organo delicato. Ha una bella famiglia, mezzi sufficienti, vive nel grattacielo di Milano dove un tempo c’era la casa di mio padre. Spero che tutto vada bene, ma è importante il suo mettersi in prima linea per dimostrare come non ci si debba vergognare della malattia».
Ultima domanda: conosce le Langhe?
«Quando lavoravo a Milano, sono venuto più volte nelle Langhe e ad Alba, per racconti di colore e per qualche alluvione. Sono anche diabetico, ma quella è una zona strepitosa per i vini e il cibo, iscritta a pieno titolo alle meraviglie di questo Paese. Se solo non ci fossero situazioni, spesso politiche, che negli anni lo hanno svilito».
«La storia si ripete, il potere economico provoca scontri»
Pamparana: «Da mani pulite a Tiffany, la cronaca non basta»