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«La guerra ha frenato la ripresa economica ora serve un piano»

Il giornalista economico analizza gli scenari: «Finché non c’è un armistizio, meglio non fare previsioni. Ma l’Europa deve muoversi. E in una futura intesa, non si dovrà escludere del tutto la Russia dai mercati internazionali»

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Ha fatto tappa a Pollenzo, su in­vito dell’Ascom, ed è stata l’occasione per intervistarlo. Oscar Giannino è un interlocutore ideale per capire meglio gli scenari attuali di crisi.

Prima il Covid e ora la guerra: c’è da preoccuparsi?
«Purtroppo sì, nel senso che c’è stato l’allineamento di alcuni fattori imprevisti in questo inizio 2022. Aveva­mo alle spalle un fortissimo rimbalzo dopo i quasi 9 punti di Pil persi per i lockdown, fino a metà 2021 è stata l’industria, come in ogni crisi post 2011, a trainare la ripresa italiana e i risultati sono stati migliori delle aspettative, un aumento degli investimenti fissi lordi del 17%, un aumento di export superiore al 13% in un anno, poi tutto il settore dei servizi si è messo potentemente in movimento migliorando le posizioni, anche se non rispetto al 2019».

Poi però è scattata l’emergenza energetica?

«Già prima della guerra i prestiti dell’energia avevano assunto una dinamica molto preoccupante, a fine 2021 gli aumenti del prezzo del gas sono stati superiori del 300 per cento rispetto al 2019. L’invasione russa ha causato un fortissimo impatto sui prezzi. Noi siamo un paese asimmetrico, siamo stati colpiti più duramente, perché è vero che la Germania importa un volume di gas dalla Russia tre volte superiore, ma noi ne utilizziamo una notevole quantità per la produzione dell’energia, molto superiore a quella degli altri paesi europei. Quindi significa che nel prezzo della bolletta che arriva alle famiglie e alle imprese, l’impatto del costo del gas, salito a più del 500 per cento rispetto al 2019, è fortissimo».

C’è dell’altro?
«Un secondo aspetto riguarda la rottura delle catene globali delle forniture, di fatto con le sanzioni verso la Russia. Prima c’erano ritardi nel commercio mondiale per i lockdown e le chiusure dei porti della Cina sul Paciufico. C’era un fortissimo ritardo nella produzione dei conduttori e forti difficoltà rispetto ad alcune materie prime e metalli pregiati. In Italia, ovvio, siamo un po’ distratti dal dibattito sulla guerra. Nel frattempo la Cina ha chiuso Shenzhen e Shanghai, principali porti sul Pacifico».

Come si uscirà da questa situazione?

«È appunto il terzo aspetto, nessuno può prevedere quando finiranno questi effetti. Non ci sono ancora le condizioni né per un armistizio né per un accordo di pace, e l’Europa resta la parte più debole. Gli Stati Uniti sono autonomi sull’energia e non avevano la presenza di migliaia di aziende sul suolo russo come l’Europa: 477 imprese italiane in Russia con un fatturato annuo di 7,4 miliardi, hanno investito per 12 miliardi di euro, tutta roba che rischia di evaporare. Quindi siamo più deboli come Europa».

A maggior ragione, oltre che per ragioni umanitarie, servirebbe una solida azione diplomatica?
«Per preoccuparci meno bisogna che i governi guida dell’Europa riescano, nel tavolo dell’armistizio – sperando di arrivarci presto – a mettere condizioni che oltre alla salvaguardia dell’Ucra­i­na, prefigurino accordi globali di accessi anche del mercato russo in Europa, post invasione, che non rompano i rapporti con la Cina, perché per l’industria trasformatrice italiana e per le grandi imprese tedesche e francesi, sa­rebbe un col­­po ancora più gra­ve, cioè strutturale. Dobbiamo essere cauti nelle previsioni, ma si parla di una crescita italiana che nella migliore delle ipotesi passa da una quota di oltre il 4% (dopo il 6,6 % del 2021), al 2 e qualcosa, se va bene. Più il conflitto dura e più questi tre fenomeni diventano gravi con il rischio che si spezzi quel percorso di crescita che, grazie alle risorse europee, ma anche alla forza delle imprese, era stato intrapreso. Non siamo pessimisti, però il realismo induce al pessimismo».

Quali ulteriori conseguenze si possono prevedere nell’immediato?
«Ci sono tre fattori, il primo è che non è solo il mercato delle commodities energetiche a essere sconvolto, c’è un effetto di aumento del prezzo di commodities agricole che sono fondamentali: grano, mais e così via. Ha un impatto diretto sui prezzi in generale ed è una questione forte. Secondo: tutto questo non ridurrà il flusso di turisti interessati al benessere, all’integrazione straordinaria che in questa parte d’Italia – da 25 anni – coniuga l’eccellenza enogastronomica con la bellezza e il patrimonio culturale. Ma colpirà ciò che arriva dall’Est Europa, nella fascia medio-elevata del turista consumatore, che era diventata significativa in Italia. Terzo: non devo dire io quanta parte delle produzioni enogastromomiche e vinicole aveva un suo sfogo nei mercati internazionali. Se non è ipotizzabile un danno per le quote verso Stati Uniti o in Europa, nel resto del mondo un danno c’è».

E allora?
«Dovremo essere saggi e previdenti, cioè le catene piccole delle imprese d’eccellenza devono pensare a un’evoluzione ulteriore della loro capacità sul rischio di credito, sul rischio d’impresa, mettere insieme i dati in filiere per accedere a capitali che sono oggi necessari per investire in nome di questo futuro, molto diverso da quello che immaginavamo».

Non dovremmo puntare a una maggiore indipendenza economica?
«L’Europa è una parte molto singolare del mondo. Gli Stati Uniti, dopo le crisi energetiche degli anni ’70, si resero conto che erano finiti in un angolo del ring avendo del tutto sottovalutato l’autonomia energetica. In vent’anni hanno realizzato una vera rivoluzione tecnologica con il fracking, cioè la scissione idraulica, che ha reso disponibile una quantità di combustibili fossili di cui essi stessi ignoravano l’esistenza. Que­sto li ha resi autonomi energeticamente. Oggi li stiamo implorando di darci gas liquido».

Da queste parti non è ancora accaduto: perché?

«L’Europa non ha fatto questo ragionamento né sull’energia né sulle eccellenze tecnologiche. In alcuni settori abbiamo un alto costo e un alto valore aggiunto, è così che ci reggiamo. Abbiamo un welfare da difendere, come i diritti. La Cina, no. Questa cosa si regge se sei sempre più in alto nelle catene di valore aggiunto, tra eccellenza tecnologica e commodities. Noi ne siamo scarsi».

Con quali prospettive?
«L’Europa dopo il Next Generation You, che è stata un’enorme risposta cooperativa al colpo del lockdown, deve varare nuovi strumenti, nuove obbligazioni garantite per l’eccellenza tecnologica e le difese delle filiere d’impresa non solo industriali, ma anche della sua eccellenza nel modello di integrazione dell’offerta economica al mondo. Un problema delicato perché oggi è un must, o si fa così o in questo scontro di grandi piattaforme, si perdono posizioni.
Qui dipende tutto dai grandi statisti europei. Il governo tedesco di Scholtz secondo me, ragiona in una maniera che stupisce, appare molto più proattivo del governo Merkel che, in fondo, aveva puntato tutto su Putin. In Francia vedremo a breve cosa succede. Ma la sfida italiana ed europea è, in generale, quella dell’indipendenza ener­getica e delle tecnologie».