Home Articoli Rivista Idea «Nelle mie immagini c’è un pianeta che cerca normalità»

«Nelle mie immagini c’è un pianeta che cerca normalità»

Le mille sfaccettature della società raccontate dal saviglianese Alberto Gandolfo, fotografo della Serie A di calcio che di recente ha documentato l’esodo dei profughi ucraini

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Dalla pandemia al­la voglia di tornare a vivere i gran­di eventi, pas­sando per una nuova e­mer­genza: la guerra in U­crai­na. Sono sempre più numerose le sfaccettature della nostra società. Emergono in maniera netta dagli scatti del saviglianese Alberto Gandolfo, fotografo professionista del calcio di Serie A e della musica in­terna­zionale (ma non solo). Lo abbiamo intervistato.

Gandolfo, si è recato nelle zo­ne al confine con l’Ucraina per documentare l’esodo dei profughi. Le sue sensazioni?
«Ho visto – nei volti di chi fuggiva – dolore e tristezza, ma anche la voglia di non arrendersi. Penso spesso a due bam­bini che ho fotografato. Erano appena saliti su un pullman per l’Italia e mi sorridevano: i loro occhi, però, erano lucidi…».

Altre espressioni che l’hanno colpita?
«Una signora anziana che, po­co prima di salire – anche lei – su un bus diretto nel nostro Paese, ha ringraziato la re­spon­sabile del centro profughi che l’aveva accolta per diversi giorni: erano entrambe parecchio emozionate. Poi, non posso non citare un bambino fuggito dall’Ucraina che, alla stazione di Prze­mysl (in Polonia, nda), beveva un tè caldo tenendo in mano il bicchiere come se fosse un tesoro».

Lei ha documentato anche l’emergenza sanitaria.
«Quello del Covid è stato – fo­tograficamente parlando – uno dei periodi più difficili della mia “carriera”. Da diverso tempo, documentavo le par­tite di Serie A e Cham­pions Lea­gue e, in precedenza, ave­vo seguito eventi musicali nazionali e internazionali: insomma, ero abituato a lavorare nel caos più assoluto, a stretto contatto con il calore e il rumore della gente. Con la pandemia mi sono ritrovato nel silenzio più assoluto, pure a Torino… Potevo fare via Po su e giù quattro o cinque vol­te senza che incontrassi qualcuno e senza che si sentissero suoni, se non le sirene delle ambulanze».

Qual è la foto “simbolo” di quel periodo?
«Sotto i portici di via Po, era comparsa una scritta che, in inglese, recitava così: “Fate pa­gare il Covid ai ricchi”. Il caso ha voluto che pochi me­tri più avanti ci fosse un senza tetto e così scattai quella foto, con il graffito, i portici di via Po deserti e il senza tetto che enfatizzava ancora più la com­­posizione, alla luce so­prattutto del significato del messaggio scritto sui muri».

Nei suoi scatti anche questioni sociali e ambientali (Black Lives Matter e Greta Thun­berg) e tanto sport. Che so­cietà vede dal suo obiettivo?
«Vedo una società che cambia continuamente. In questo mo­­mento, ad esempio, fotografo una società che ha di nuovo voglia di vivere, di riunirsi, di riscoprire la bellezza della normalità. Nei mesi più duri dell’emergenza sanitaria era tutto diverso. Invece, in questi giorni – e lo dicevo an­che con i colleghi durante Ju­ve-Inter, la prima partita da inizio pandemia con capienza dello stadio al 100% -, c’è nell’aria un’energia positiva che non si avvertiva da un po’».

Lei è spesso a Torino, ma è originario di Savigliano. Cosa le piace fotografare di più della provincia di Cuneo?

«In effetti, sono praticamente sempre a Torino, ma vivo an­cora a Savigliano. Le mie foto “cuneesi” riguardano prin­cipalmente sport e musica: in Granda, im­mortalo le gesta della Bo­sca S. Bernardo di volley di A1 e, in passato, ho do­cumentato anche gli ap­pun­­tamenti di Collisioni».

Lei fotografa per dare sfogo a un’esigenza artistica personale oppure perché vuole raccontare la realtà?
«Non ho dubbi: fotografo perché mi piace raccontare – attraverso le immagini – tutto quello che mi circonda».

Come si è avvicinato alla fotografia?

«È stata un po’ una scoperta per caso. Io sono diplomato come grafico pubblicitario e tra le materie che studiavo a scuola c’era la fotografia… pubblicitaria. Il primo impatto, lo devo ammettere, non fu dei migliori».

Come mai?
«Non amo particolarmente restare chiuso in studio a fotografare oggetti statici o persone in posa…».

Poi cosa è successo?

«Per puro caso, ho svolto uno stage in un giornale locale e da lì ho compreso che fotografare per fare cronaca sarebbe potuta diventare la mia strada».

Il primo servizio?

«Era una partita di calcio, del Cavallermaggiore femminile. C’era il diluvio universale… Fu il primo di una serie lunghissima di servizi fotografici realizzati sotto la pioggia (ride, nda)».

La sua prossima foto, invece, quale sarà?

«Adesso mi aspettano le ultime, intense, partite di Serie A. Avendo giocato per tanti anni a pallacanestro, il mio sogno sarebbe quello di fotografare un giorno i campioni della Nba americana. Un soggetto in particolare? Direi uno dei miei idoli musicali: Bruce Springsteen e David Gilmour, su tutti. Sono affascinato, poi, dalle fotografie che ha scattato la statunitense Annie Lei­bovitz – la mia fotografa preferita – alla regina Eli­sa­bet­ta: mi piacerebbe tanto poter fotografare pure lei».