Ancora un ottimo frutto del lockdown. Arriva da Lucrezia Lante della Rovere, protagonista di una rivisitazione molto interessante de “L’uomo dal fiore in bocca” di Luigi Pirandello, un atto unico che da pretestuoso dialogo con un avventore qualunque si fa monologo disincantato sulla morte imminente.
Per chi non lo sapesse, il fiore del titolo è un tumore «dal nome dolcissimo», epitelioma, che lascia all’uomo in questione i giorni contati e un pugno di domande sul senso e il non senso della vita che resta.
Con tutte le presenze e con tutti i fantasmi che l’hanno abitata. A cominciare dalla moglie, la donna vestita di nero che, nel testo, è ombra muta e incombente, aggrappata all’immaginazione con tutta se stessa perché «riesco a immaginare tutto ma non la mia vita senza di lui».
A questa presenza-assenza che aleggia dietro alla porta del caffè della stazione dove avviene l’incontro tra i due, ha dato corpo e voce Lucrezia, in una scena completamente mutata che la vede prendersi cura della tomba nella quale ormai giace il marito.
L’idea di esplorare un classico dal punto di vista femminile è molto curiosa, com’è nata?
«L’idea è di Francesco Zecca, il regista, ed è nata quasi per gioco durante il lockdown. Lo abbiamo riletto cercando di capire se fosse possibile tirar fuori questa figura muta e farla parlare. Se poteva funzionare mettere le parole di lui in bocca a lei. Il copione è fedele al testo originale, sostanzialmente invariato, a parte poche frasi e qualche parola».
Avete lavorato attraverso i monitor o avete infranto le regole?
«Il lavoro vero si è svolto nel secondo lockdown e incontrarsi non era vietato. Inoltre abitiamo vicini e ci vedevamo spesso per le passeggiate con i nostri rispettivi cani».
La regia e la recitazione mostrano un lavoro sui sottotesti molto scrupoloso e anche un’attenzione particolare alla gestualità, ai movimenti minimi, agli sguardi, alle allusioni.
«Abbiamo lavorato senza fretta e senza l’ansia di andare in scena, provando e riprovando. Lo spettacolo è un po’ come la tela per un pittore in cui tutto si muove e si completa un po’ alla volta, cambiando anche rispetto agli spazi. L’allestimento al Teatro Argot di Roma, per esempio, ha segnato un salto ulteriore perché si tratta di uno spazio molto più piccolo degli altri teatri e il pubblico è per forza molto più vicino a chi recita».
Anche le luci, i suoni, i rumori, sono molto performativi.
«Sono soprattutto suoni astratti e dovevano dare l’idea di una sospensione, di un ultimo respiro, come se anche l’immaginazione fosse finita, non solo la vita».
La scelta di “Vedrai, vedrai” di Luigi Tenco però non è astratta. C’è un momento in cui anche lei ne intona una strofa, distesa sulla tomba.
«Una scelta registica anche questa, in cui si immagina un uomo che torna e dice che “un bel giorno cambierà”».
La speranza?
«Anche».
Però resta il fatto che si racconta la morte. C’è stato un condizionamento in questo senso, considerato il periodo che abbiamo attraversato?
«È ovvio che questo tema è stato scelto anche in base a tutti i morti che ci sono stati, ma è anche vero che più cresci più ti ritrovi a fare i conti con la morte e con la stratificazione di significati che le persone che non ci sono più hanno lasciato. La storia della protagonista è proprio questo: lei che restando si interroga a partire dalle persone che non ci sono più».
La morte di sua madre quanto ha influenzato il suo approccio a questo lavoro?
«La sua e non solo. Io ho dovuto elaborare molti lutti, mio padre, mia zia, un compagno morto ancora molto giovane, amici. Francesco stesso ha perso un fratello».
Quanto vi ha aiutato il teatro?
«Il teatro aiuta sempre. È un mezzo per elaborare qualsiasi cosa, per tirar fuori, per capire. È una meravigliosa forma di comunione che crea una circolarità virtuosa tra autore, attore e pubblico, è come un regalo che passa di mano in mano».
Con Francesco Zecca avevate già lavorato insieme in uno spettacolo da lei molto voluto, “Io sono Misia”, ispirato alle memorie di Misia Sert, mecenate e regina dei salotti parigini di inizio Novecento.
«Forse lo spettacolo a cui sono più legata. Mi ero innamorata del romanzo e ho chiesto a Vittorio Cielo di ricavarne una drammaturgia. Misia possedeva “il talento di saper annusare il talento”, si dice nel testo. E lei stessa si definiva una cercatrice di geni e di meraviglie umane».
Tornando a questo Pirandello, a un certo punto si sente la voce fuori campo di Vittorio Gassman, con cui ha girato “Quando eravamo repressi” per la regia di Pino Quartullo. Che ricordo ne conserva?
«Vittorio interpretava un sessuologo ma io l’ho visto troppe poche volte. Ricordo solo che eravamo tutti contenti che ci fosse lui».
Ha già visto la mostra dedicata all’Auditorium Parco della Musica?
«Non ancora, ma andrò non appena finisco con le repliche».
Il suo primo film è stato “Speriamo che sia femmina” di Mario Monicelli con un cast stellare che comprendeva, tra gli altri, Liv Ullmann. Un pensiero sul suo Oscar alla carriera?
«Una donna magnetica, con un fascino che incanta e quel qualcosa in più che sa raccontare al di là delle parole. E se era così trent’anni fa, figuriamoci adesso! Un premio meritatissimo, ne sono felice».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco