Raccontando la sua carriera «divertente», a un certo punto Emanuele Dotto si ferma. E confida: «Ho solo un rammarico. Perché nel giorno del mio compleanno, lo scorso giugno, ho ricevuto in regalo la notizia della sclerosi multipla, che mi ha lasciato qualche difficoltà nel fisico. Però continuo a giocare la mia partita e so che posso ancora pareggiare!». Dotto è stato ospite giovedì scorso a Mondovì del Premio Dardanello e ha ricevuto una targa speciale come riconoscimento per la sua straordinaria avventura professionale. Che descrive così:
«Senza essere stato un pontefice massimo del giornalismo, diciamo che ho seminato abbastanza bene. E soprattutto, mi sono divertito. Ho seguito tanti sport, ho portato un po’ di allegria a chi ascoltava la radio. Ho lavorato per due anni e mezzo al Giornale di Montanelli e 39 anni e mezzo in Rai, con un bagaglio di 20 giri d’Italia, 10 Tour de France, 11 olimpiadi di cui 8 estive. Insomma, tante occasioni per osservare il mondo».
Felice di questo premio che porta il nome di Piero Dardanello?
«Sono contento, prima di tutto perché la Granda per me ha sempre rappresentato molto. Io sono ligure-piemontese della zona di Ovada che è un po’ più a sud rispetto a questa provincia. Però ricordo di aver visto giocare anche la Carassonese, che era il nome della squadra di Mondovì, allo stadio Ottolenghi di Acqui Terme quando ero un bambino. Mondovì è una bella città, Dardanello poi è stato un maestro che ha avuto intuizioni geniali, direttore di Tuttosport che ha forgiato tanti giovani che hanno fatto una bella carriera nel mondo della carta stampata».
È stato anche un innovatore del linguaggio sportivo.
«Sì, del linguaggio e della parola con le sue novità stilistiche. Ha esportato intelligenza».
Dotto si è divertito di più come radiocronista oppure nell’ultima esperienza televisiva a “Quelli che il calcio”?
«Sicuramente alla radio, perché mi ha permesso di osservare e studiare il mondo. La televisione distrae e toglie sicurezze, la radio invece consente anche un interscambio culturale. Se sei a Mondovì, non puoi non conoscere la città antica, stesso discorso se vai a Fossano, per restare in Granda. E allora, ad esempio, se vai al Giro delle Fiandre, devi sapere che ad Anversa ci sono i capolavori di Rubens e Rembrandt».
E quali eccellenze conosce di Mondovì?
«Culinarie e artistiche, è una città molto bella. Con un grande nome dell’architettura come Francesco Gallo, la cupola ellittica di Vicoforte, i rioni Piazza, Breo e Carassone. Io sono laureato in storia, ricordo che la città fu fondata nel 1200 da Vico, Vasco e Carassone».
Un grande passato e un futuro da ridisegnare: su cosa devono puntare città come Mondovì?
«Devono recuperare le eccellenze: cucina, architettura, pittura, le chiese… c’è tanto da vedere in Piemonte, nella Granda in particolare. Molti ancora non conoscono la bellezza della natura, di luoghi come il Colle della Fauniera o dell’Agnello. Ma Mondovì, Alba, Fossano e Bra sono piccoli scrigni da scoprire e per costruire una narrazione interessante ci vuole solo un po’ di fantasia».
Lei ha visto, tra le altre cose, cambiamenti epocali: a partire dal calcio?
«È cambiato tantissimo il calcio, non sembra in meglio. Capisco le esigenze economiche, ma il calcio per come lo ricordiamo aveva la sua bellezza nella contemporaneità delle partite. Adesso il sogno dei padroni del calcio è di trasmettere dieci partite in dieci orari diversi. Il mondo è cambiato. Però è il progresso che avanza, bellezza! Per fare una citazione cinematografica».
E il calcio italiano è in crisi?
«Le partite che vediamo sono mediocri, del resto non andremo ai Mondiali: è indicativo del malessere del nostro calcio, quella dell’Europeo vinto è stata una parentesi, arrivata più per caso che per meriti reali: la Spagna ci aveva messo sotto, l’Inghilterra anche. Abbiamo vinto per le parate di Donnarumma e gli errori altrui dal dischetto. E poi, non siamo riusciti a battere la Macedonia!».
Anche il giornalismo è cambiato in peggio?
«Purtroppo sì. Non esistono più rapporti con i giocatori, prima tornavi dalla trasferta viaggiando sul pullman delle squadre e ti ospitavano volentieri, adesso gli addetti stampa, più che aiutare, sono lì per ostacolare il lavoro dei giornalisti. Le interviste faccia a faccia sono improponibili. I campioni vengono oscurati, penso a Ronaldo che alla Juve non vedeva mai un tifoso, viveva nel suo mondo. Il tipo di giornalismo barricadero o rivoluzionario, alla Biscardi, oggi è sorpassato. Tutto è totalmente sbalestrato. E nel nostro campionato non arrivano più campioni come Maradona, Zico o Platini, ma talenti di secondo piano tipo Dybala».
Si consola con la passione per l’Alessandria?
«È stata per 43 anni in serie C, ha passato le pene dell’inferno, spero che si salvi. Ma l’essere stato tifoso di una squadra di medio cabotaggio, mi ha reso indipendente e parco nelle valutazioni. Le squadre minori una volta avevano un ruolo che non esiste più. Torricelli giocava in D nella Caratese e arrivò in A, nella Juve. Il serbatoio delle serie minori era funzionale alle squadre nazionali. Adesso non è più così, abbiamo preso una brutta china».