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«Dante nel cuore grazie ai versi di un giardiniere»

Oreste Valente: dalla “bottega” di Gassman all’amicizia con Cazzullo fino al grande Borges: «Lui disse che la Commedia va letta in italiano»

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“Innamoratamente O – restando Dan­te”. Gioca sul suo nome Oreste Va­lente, attore e regista di solida scuola, alla volta del titolo del suo saggio su Dante (edito dalla Dante Alighieri), e lo fa come chi sulle parole è abituato a saltellare. E subito ci mette di fronte al cuore del dilemma: trasgredire da libero e intemperante innamorato oppure restare dentro la fitta rete di salvataggio che il sommo Poeta ha ordito per la salvezza dei posteri? Farsi guidare dall’eros e danzare libero sugli endecasillabi sciogliendo le catene di terzina in terzina, oppure restarci dentro, legato e disciplinato come un bravo dicitore che sa bene di metrica e di tutto quello che occorre per non sprofondare? Eseguire o inventare? È la domanda che chi legge vorrebbe rivolgere all’autore attore e la risposta è nell’ascolto, semplicemente. A­scol­tare Oreste che dice Dante. La risposta è nel titolo, che consolida il dubbio senza curarsi di superarlo. La ragione invece è nella storia di questo artista della scena e del dietro le quinte che si è forgiato alla Bottega di Vittorio Gassman e poi ha preso il volo, qualcosa come trentacinque anni fa. Dopo avere imparato che le catene si possono sapientemente forzare, a patto di conoscerle bene.

Com’è nato questo saggio su Dante?
«La mia fortuna è avere un rapporto speciale con Dante fin da piccolo. Nel capitolo Divina Mimesis 1975 (titolo preso dall’ultima composizione non finita di Pasolini che muore proprio nel 1975 prima di terminarla), racconto il mio rapporto con Dante da bambino. A Sanremo nella casa dei nonni scopro nella libreria un libro liberty con cartoline della Divina Commedia. Poi ecco che Lino, il giardiniere, me li recita in vari punti del giardino, del parco e dell’orto».

Un giardiniere colto per un ap­proccio bucolico che ha da­to i suoi frutti. Nel libro c’è una par­te importante intitolata Quat­­tro chiacchiere con Aldo Cazzullo che a Dante ha dedicato due volumi, “A riveder le stelle” e “Il posto degli uomini”. Anche questi in chia­ve di­vulgativa. Com’è av­venuto il vostro incontro?
«Ci siamo conosciuti anni fa in Liguria, a Monterosso, ed è nata subito una grande sintonia. Ho amato i suoi due libri perché sono semplici, immediati e tecnici allo stesso tempo. E non cedono a interpretazioni forzate. Tocca temi vicini alla politica di oggi e riconosce apertamente che Dante è il primo a parlare di Italia».

Da attore, dov’è, secondo lei, la modernità di Dante?
«Dante ti permette di saltellare sul verso. Le “contese” con Forese Donati, dove si scambiavano sonetti ingiuriosi dandosi del figlio di zoccola e dell’usuraio, mi ricordano molto i rapper di oggi. Io ho la sensazione che in Dante ci sia una dimensione da osteria e, diremmo adesso, fortemente psichedelica. A me il suo verso risuona al di là del manierismo. Giorgio Alber­taz­zi, un mio maestro, diceva che la metrica la scopri anche dentro di te, se sai aprire i canali».

Albertazzi le disse anche: “Vai e porta Dante nel mondo”. Do­ve l’ha portato?
«Fino in Argentina, un Paese a cui sono molto legato. Nel 2018 al Teatro Coliseo di Buenos Aires, unico al mondo di proprietà dello Stato italiano, portammo “La vita nuo­va”, un’opera drammatica per so­prano, orchestra e voce narrante scritta da Nicola Piovani che sostiene che in quell’opera giovanile è contenuto in nuce tutto il mondo poetico della Comme­dia».

Ma non finisce qui. Buenos Ai­res è anche la terra di Borges che sulla Commedia disse be­ne la sua e a cui lei diede voce.
«Borges infatti disse che la Commedia va letta in italiano e non si deve tradurre. Diedi evidenza alla sua figura nel 2019 durante una cena di gala a Palacio San Miguel in cui davo voce al pensiero di Bor­ges e insieme a un altro attore recitavo alcuni versi della Divina Commedia».

Tutto in italiano?
«Sì a parte un sonetto inedito di Borges sul canto di Ulisse, in spagnolo».

La convince l’idea che la Com­media non vada tradotta?
«Sì, basti pensare che il poeta russo Evgenij Evtušenko volle imparare l’italiano apposta».

Lei è anche insegnante molto stimato. Quanto è contata l’e­sperienza della Bottega e l’insegnamento di Vittorio Gass­man?
«Gassman ci diceva che il fatto che la scuola si chiamasse bottega non era casuale. A Firenze le botteghe sono innanzitutto quelle rinascimentali, degli artigiani, dei pittori e scultori. Loro creavano con i pennelli e con il marmo, noi dovevamo creare con i versi. Anche noi procedendo per prove ed errori. E anche dall’errore può nascere una meraviglia. Io cerco di insegnare anche questo».

Le chiedo un’ultima cosa sa­pendo che vi siete voluti molto bene. Un ricordo di Catherine Spaak, con cui ha lavorato più volte.
«Catherine era la mia gemella astrale, nata lo stesso giorno, a vent’anni di distanza. Una maestra che mi ha spiegato che in teatro l’eleganza, la leggerezza e la gentilezza sono una forza e vanno difese».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco