Inseguire le emozioni. Con un libro che è anche un viaggio. Il viaggio di Maria Gabriella Asparaggio, scrittrice e insegnante di scuola media a Savigliano, raccontato nelle pagine di “Terra di muri e di confini”, in moto nell’Europa dell’Est.
Da cosa nasce questo libro, professoressa?
«Questo libro nasce dalla passione per il viaggio e per l’avventura, dal desiderio intimo di correre incontro all’imprevisto, di provare emozioni forti nell’entrare in luoghi vietati, dal bisogno di conoscere l’altro, dall’anelito, insito in ognuno di noi, di raccontare e raccontarsi, attraverso le esperienze vissute durante la scoperta di luoghi a noi sconosciuti, mai visti, intensamente sognati, ma anche di riferire sulle relazioni intessute con le persone via via incontrate in questo cammino. E proprio da queste relazioni si sviluppa quindi a poco a poco un libro che racconta anche di emigrazione, di solidarietà, di comunismo, di dittatura, di società, di gente, di uomini, di abitudini, di vita e di guerra».
Un viaggio con il marito, appassionato di moto, alla ricerca delle sue radici, è così?
«Mio marito è di origini ungheresi, il nostro percorso è nato anche per questo. Hollò, il suo cognome, vuol dire “corvo” in ungherese, lingua d’origine della famiglia di mio marito. I suoi avi abitavano le antiche terre dell’impero austro-ungarico, nella cittadina di Csikszereda secondo la lingua magiara, o Miercurea Ciuc, seguendo la parlata rumena. Alla morte di suo padre andammo alla ricerca delle origini. Il risultato di questo viaggio emozionante è in queste pagine. Abbiamo recuperato la storia del nonno Làslò che durante la Grande Guerra viene spedito, a diciotto anni, sul fronte ungherese a combattere contro gli italiani. Fatto subito prigioniero sul Carso – con quali modalità non è dato sapere, perché tali ricordi, insieme con la miseria vissuta e subita da quest’uomo erano un tabù in casa Hollò, in quanto spiacevoli e da serrare come in un vaso di Pandora – è poi spedito a Maddaloni in provincia di Caserta. Da qui peregrina per l’Italia, finchè, non si sa per quale motivo, approda a Savigliano. Qui si mantiene con il mestiere di sarto, imparato a otto anni quando, bambino, con il suo misero fagotto si dirigeva a piedi, camminando almeno per diciannove ore, da Csikszereda a Brazov che raggiungeva seguendo i binari per non perdersi, lui ingenuo, insicuro, minuto, da poco affacciatosi alla vita, solo in luoghi che dovevano apparirgli immensi e paurosi in quanto sconosciuti. A Savigliano s’innamora di Vittoria Botta, che nel 1933 dà alla luce Giuseppe, il quale, a sua volta, si sposa con Caterina Marsengo e il 9 agosto 1967 nasce il loro primogenito, Gianluigi, mio marito. Il grande cruccio di nonno Làslò è stato di non essere mai tornato in Ungheria. Da qui la spinta per il nostro viaggio».
E invece la sua passione per l’Est da che cosa nasce?
«Gli incunaboli dell’amore per l’Est mi fanno risalire a quand’ero piccola, con i racconti di mio padre sulle nostre origini campane di Pozzuoli; mia bisnonna si chiamava Camilla Ciocco; si sposò con un migrante di Trofarello impiegatosi a Napoli; i due cercarono fortuna in Baviera, nel sud della Germania, così che ad Arnsberg, in Vestfalia, nacque mia nonna, Maria Giors, di cui porto il nome. Mio bisnonno lavorò anche al tunnel ferroviario del San Gottardo, il più lungo del mondo; si ammalò e gli svizzeri lo curarono con abbondante cibo, ma perse poi l’impiego essendo l’unico a scioperare contro la paga bassa e le cattive condizioni occupazionali. Così nella famiglia di migranti sfruttati nasce il mito di Lenìn, pronunciato con l’accento sulla “i” – come lo chiamava mio nonno – e del Pci, nonostante la barbarie di Stalin e le nefandezze di Togliatti e l’ingresso nel ’56 dei carri armati sovietici a Budapest, la rivoluzione di Praga del ’68 e l’orrore di piazza Tienanmen. La mia breve storia personale forse spiega il mio avvicinamento all’Est che nasce da un mondo operaio e contadino sfruttato che tenta di cambiare le proprie sorti, in uno sforzo evidentemente fallito».
Lei è insegnante oltre che scrittrice, che cosa, più di tutto, vuole trasmettere ai suoi ragazzi?
«La passione per la lettura, anche attraverso i nuovi strumenti tecnologici che li appassionano tanto. Bisogna stare al passo dei tempi e dare stimoli ai ragazzi: solo così si possono fare grandi cose. Io leggo molto in classe, di tutto, leggiamo insieme ad alta voce. Cerco di trasmettere il mio amore per la lettura. Ma usiamo anche i tablet e una volta alla settimana leggiamo i giornali».
L’ultimo Salone del Libro di Torino è stato un record di visitatori, pensa che sia il segnale che i giovani stanno tornando alla lettura?
«L’importante è offrire loro degli stimoli, non rendere la lettura un obbligo ma un piacere. Così i risultati arrivano, eccome. I nostri ragazzi sono davvero in gamba. Hanno passato periodi terribili, in isolamento, senza contatti con amici e compagni. Eppure non hanno perso la speranza, ora noi adulti dobbiamo aiutarli ad inseguire i loro sogni».