Un tatuaggio sul braccio, le nuvole di fumo d’un sigaro, i cori da stadio e gli zampilli di champagne. Stefano Pioli, misurato allenatore del Milan, si lascia andare dopo lo scudetto: pochi, alla vigilia del campionato, ci avrebbero scommesso, era un sogno più che un obiettivo, nemmeno la nitida crescita del gruppo aveva scacciato l’alone di diffidenza. «Nessuno crede in noi – il suo urlo in primavera – ma non importa se ci sottovalutano: a me interessa sapere cosa pensano i miei giocatori, non gli altri». Determinazione, sacrificio, pazienza: qualità essenziali nel trionfo trasmesse da un uomo che attinge alla cultura contadina, come ha orgogliosamente affermato durante una visita documentata da IDEA a Lu e Cuccaro Monferrato, dove ha ritirato il premio dedicato a Nils Liedholm, illustre predecessore sulla panchina rossonera: «Mi sento molto vicino per tenacia e voglia di lavorare, ma anche per pazienza e desiderio di coltivare qualcosa di buono che possa dare dei frutti importanti. Qui siamo nella terra dei vini e si sa che per raggiungere grandi risultati occorrono cura, sacrificio e attenzione».
La forza del carattere e la capacità di dialogo di Pioli sono state sicuramente fondamentali, ma rimarcandole si rischia di rimpicciolire intuizioni tattiche che hanno fatto la differenza in momenti clou. Perché l’equilibrio instaurato con il “vecchio” Ibrahimovic e la serenità avuta nell’aspettare i giovani non pesano meno delle idee che hanno indirizzato risultati chiave: a Verona, in una sfida delicatissima, spostò in avanti Tonali, ripagato con una doppietta decisiva. L’azzurro, come il portoghese Leao, è uno dei simboli del Milan cresciuto sotto le cure dell’allenatore parmigiano, squadra disincantata nella sua gioventù, a tratti agevolata dall’incoscienza e a tratti penalizzata dall’inesperienza.
Sì, il Milan è davvero una sua creatura. Il tecnico merita il successo per le qualità umane, per l’aplomb, per le idee tattiche, per la passione. Per aver sempre fatto bene senza mai sentirsi un santone a differenza di tanti colleghi. È partito dal basso, dalle giovanili del Bologna dove ha vinto un campionato Allievi, ed è arrivato quassù passando per piccoli e grandi club, sempre fedele alla sua filosofia, alla sua cultura del lavoro, alla serenità che sa trovare dentro e trasmettere. Al Milan non s’è snaturato, nemmeno nei momenti duri. Nemmeno un anno fa quando le voci su un addio erano così pressanti da far temere l’imminenza. Bravo il Milan a portare avanti il progetto senza ascoltare umori o pressioni. E bravo Pioli a ripagare la fiducia fino a rivivere un’emozione già assaporata da calciatore: perché uno scudetto l’aveva già vinto nell’86 alla Juventus con Scirea e Platini. La prima volta in panchina, indimenticabile, con una dedica a mamma («Visto che ho vinto qualcosa?») e una al papà che non c’è più: «Ovunque sia, sarà felice». Avrà anche la sua medaglia: l’aveva smarrita, o gli era stata sfilata durante i festeggiamenti in campo, ma alcuni ragazzi, dopo averla esibita sui social, l’hanno riconsegnata sostenendo di averla trovata sul prato di Reggio Emilia, dove, con l’ultima vittoria, è esplosa una festa attesa da undici anni.