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«Ci voleva un libro per raccontare tutto a mia figlia»

Piero Chiambretti: «Sono partito da zero, ho realizzato un miracolo italiano e l’ho scritto»

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Arriva al parco Vigna di Carma­gno­­la puntuale, accompagnato dal­l’a­mica Alessandra Co­maz­­zi (giornalista de La Stampa) che ha il compito di presentarlo dal palco di “Letti di Notte”, il festival della letteratura che si è appena concluso, con IDEA media partner dell’evento. Piero Chiambretti è brillantissimo anche fuori dall’ufficialità, fuori dallo schermo televisivo. Insomma ha lo stesso stile ovunque e in qualunque contesto. Fulmineo, affabulatore, intuitivo, sferzante. E sempre in cerca di nuove ispirazioni. «Sono os­sessionato dal pensiero della sigla per il mio nuovo programma. Ho avuto un’idea, ma è venuto fuori un problema di diritti. E allora sto pensando a come aggirare l’ostacolo».

Partiamo intanto da un ricordo: quella volta nelle Lan­ghe…
«Ero al Castello di Grinzane Cavour, nell’anno in cui ho fatto il battitore alla Fiera del Tartufo (2003), eravamo collegati con Las Vegas e un tartufone stava per essere battuto a centomila euro, lo consegnai a Del Piero e svenni. Non so se per un’allergia dovuta a Del Piero oppure al tartufo».

A proposito, com’è il suo rapporto con lo sport?
«Lo sport fa male. Sono diventato sportivo quando, a quarant’anni, mi sono rotto una gamba in tre pezzi giocando a tennis, allora ho cominciato a pensare che avrei dovuto strutturarmi di più. Al Cto, dove fui operato, mi dissero: guardi che se lei non fa una fisioterapia seria, rischia di rimanere per sempre leggermente claudicante. Ho cercato il miglior personal trainer di Torino, era lo stesso di Umberto Agnelli, e da quel momento faccio una ginnastica che ancora oggi, alla mia veneranda età, mi permette di avere delle ottime prestazioni. Sotto ogni profilo».

Buon per lei. Ci vuole fisico anche per fare il suo lavoro?
«Sì, ma bisogna avere una mente molto lucida per un corpo lucido, non il contrario. Poi se le due cose vanno insieme, è anche meglio. Io sono dell’avviso di essere molto fortunato, perché non sento di avere l’età che ho, come dicono solitamente tutti. Lo vedo ad esempio nella mia ricettività sulle idee, sui riflessi e per esempio rispetto all’improvvisazione. Che è qualcosa di innato, ma una certa velocità la può perdere un atleta come anche un brillante intrattenitore».

Perché ha sentito l’esigenza di scrivere un libro?
«Volevo lasciare una discreta, piccola, irrisoria testimonianza del mio passaggio in questo mondo. Ho avuto per fortuna una figlia e per fortuna l’ho avuta da anziano. Non avendo lei vissuto la parte migliore della mia vita creativa, per evitare che qualcuno le raccontasse cose che ho fatto mischiandole con cose che non ho fatto o che hanno fatto altri, mi sono detto: scrivo qualcosa che oggi mia figlia probabilmente non legge, ma che magari un giorno leggerà. Quindi è stato una sorta di regalo, non dico un testamento, ma una testimonianza importante, da padre a figlia, su quello che ho combinato in una sorta di miracolo italiano».

In che senso?
«Perché io sono veramente partito da zero, non ho mai avuto aiuti praticamente da nessuno. Vivo in una città, Torino, dove lo spettacolo è sempre stata l’ultima cosa. Ho pensato: se mi vogliono, mi vengono a cercare. Credo di essere andato molto più lontano di quello che immaginavo. E quindi il libro è stata una bellissima e virtuosa esperienza, la possibilità di mettere su carta quello che spesso non si dice di me. Ognuno di noi ha un’etichetta e di ognuno di noi si ricordano solo due o tre cose, ma ognuno di noi ne ha fatte mille e certe volte gli piacerebbe sentirsi dire o chiedere appunto commenti su azioni che molti non ricordano. Questo non succede mai, ma non è colpa degli intervistatori, è che noi ci occupiamo dell’effimero. È giusto ricordare chi ha scoperto l’America e non chi ha fatto un programma cosiddetto rivoluzionario sul tema della candid camera (si riferisce alla sua prima trasmissione agli esordi su una tv privata torinese, ndr), quindi nel libro ricordo questo a me stesso e a chi eventualmente lo leggerà».

La sua definizione di scrittore? Come si descrive?
«Io mi sono già descritto “inutile”. Ma parlando con gli esperti della Mondadori o soprattutto della Sperling & Kupfer che ha pubblicato il libro, mi hanno detto che dalle prime sette righe si capiva che avrei scritto un buon libro e che non sarei stato, come spesso accade, un signore che se lo fa scrivere da altri. Non riuscirei neanche a farmi pulire le scarpe da qualcuno, devo fare assolutamente tutto personalmente perché almeno se sbaglio, ho sbagliato io».

Che cosa le è rimasto da esplorare nel suo modo di fa­re televisione?
«Credo che ci sia sempre qualcosa di nuovo da fare, bisogna averne la voglia e ovviamente le occasioni. C’è qualcuno sopra di noi che decide per noi, non siamo mai da soli a decidere fino in fondo quello che facciamo. Bisogna trovare il posto giusto e la persona giusta, per poter far passare qualche concetto che spesso nessuno vuol sentire. C’è una famosa frase di Maurizio Costanzo che riporto sempre: “se avete delle idee, tenetevele”. È così: altri­menti non si va tanto lontano oggi».

E come vede la televisione oggi, insidiata da internet?
«La vedo in forte difficoltà. Chiaro che il web ci ha portato via spazio, tempo e anche il posto al centro del salotto. Il televisore è finito in bagno o in camera, è sparito da quella stanza che riuniva addirittura intere famiglie del condominio che non avevano il televisore in casa. È finita quell’epoca. Oggi si vede tutto, ma non in televisione. Si vede altrove e la tv arriva per ultima. E sapete una cosa? Spesso gli influencer da un paio di milioni di visualizzazioni, se li porti in televisione, non li vede nessuno. È stranissimo il fatto che alcune figure, anzi la maggiorparte, abbiano un pub­blico misterioso che parla di televisione ma ne parla su web. Se porti queste figure, milionarie come rendita, sulla tv non hanno nessun tipo di ritorno».

Questione di linguaggio?

«I linguaggi sono molto variegati, sempre più veloci. Pen­siamo di essere acculturati attraverso l’informazione del web, ma questa è approssimativa e spesso regnata dalle fake news. Ma ci indottrina, perché un tempo si diceva “l’ha detto la televisione” e adesso invece si dice “lo ha detto il web”».