All’anagrafe è Massimo Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich, nipote di cotanta Arcangela Felice Assunta detta Lina. Ma sotto il côté aristocratico e altisonante c’è un uomo simpatico, affabile, acuto, di tante parole belle che nascono da un pensiero solido e combattivo.
Attore e doppiatore di mestiere e vocazione, è paladino delle cause animaliste, innanzitutto, ma anche di quegli umani che più gli vanno a genio.
«A me gli animali commuovono più degli esseri umani». Ma battute a parte, Wertmüller è un sostenitore di Medici senza Frontiere e di Save the Children, persuaso che «la passione civica nobiliti la vita». Una passione che lo porta a schierarsi apertamente, da dissidente onesto, tenace, non allineato e quindi coraggioso, contro l’invio delle armi in Ucraina perché «non concepisco che si possa pensare di costruire la pace inviando armi». Ce l’ha con la faciloneria e la faziosità di chi riduce questa «guerra antica tra due stati confinanti» al rapporto «tra un invaso e un invasore», con la diplomazia incapace se non inesistente e con l’approssimazione di chi tira in ballo la shoa e la seconda guerra mondiale. «Lo scriva pure e scriva anche che non sono putiniano».
D’accordo ma ora veniamo alla sua professione: per prima cosa mi dica che rapporto aveva con sua zia, poi continuiamo come se si chiamasse Massimo Rossi.
«Un rapporto difficile ma intenso, fatto di affetto vero, divertente: se sul set volava uno str.. o un vaff… io dicevo “mi hai chiamato, Lina?”».
Ma qual è stato il suo più importante insegnamento?
La convinzione che la disciplina, la competenza, la cultura, la lettura siano strumenti indispensabili per essere alle “maniglie della propria vita”, cioè ai comandi e non soltanto semplici ingranaggi come succede oggi con le opinioni sui social».
Immagino che la sua infanzia sia stata piena di stimoli.
«Ho avuto due genitori che mi hanno trasmesso la scala di valori che mi fa essere sano di mente. Sono uno che si accontenta».
Sì, ma non è che la vita sia stata avara con lei.
«Anzi. Sono vivo grazie a quattro bypass al cuore che mi ricordano che un bel tramonto sul mare e il profumo della natura non sono affatto scontati e che la vita è un regalo meraviglioso».
A proposito di cuore, in teatro sta portando uno spettacolo che si intitola “A cuore aperto”.
«Non è un titolo a caso. Arriva da lì, ma significa anche “sinceramente” ed è una dedica a Roma, di amore e di odio allo stesso tempo perché da una decina di anni questa città è irriconoscibile. Da città dell’accoglienza, dell’apertura e del confronto, è diventata sospettosa, arrabbiata, imbruttita. Non è soltanto una questione di decoro ma di impoverimento culturale. Se chiedi di incontrare un amministratore per esporre una questione, che siano le buche, i cinghiali, le scimmiette, ti ricevono, ti fanno accomodare e poi ti dicono “facciamo un tavolo”. Per me la politica è quella di adesso e di domattina, quella che vuole costruire un mondo migliore, ma cominciando subito, non pensando di fare un tavolo e poi chissà».
Dovesse dare un suggerimento concreto all’amministrazione e alla politica attuale, non solo romana, cosa direbbe?
«Un occhio all’ecologia, uno agli esseri viventi, uno alla solidarietà. E basta con le privatizzazioni. Invece politicamente non c’è nessuno che si fa gli affari di tutti prima dei propri».
A cuore aperto è stato scritto da Gianni Clementi, un autore con cui ha lavorato spesso e che per lei ha scritto un testo che faceva il verso a Goethe: “I dolori del giovane Wertmüller”.
«Gianni è un amico fraterno, siamo stati compagni di scuola e insieme fondammo una compagnia esilarante che si chiamava La Pochade dove mettevamo in scena cose tremende. Gianni era meraviglioso, andava in proscenio e si caricava drammaticamente poi recitava una battuta di Marlowe che sembrava uscita fresca da Centocelle (popolare quartiere romano, ndr). Mio padre definiva i nostri spettacoli “un attentato allo scroto” e anche Lina rideva come una matta».
Eccola, l’ha rinominata lei. Qual è il suo film a cui è più legato?
«Da spettatore “Film d’amore e d’anarchia” per tutto quel che racconta. Il suo cinema era politico e nonostante ciò riusciva a far ridere. Molto più di un certo cinema di adesso. Oggi la risata facile ha distrutto gran parte di storia del cinema».
Ho letto che tra i tanti registi che l’hanno diretta chi l’ha segnata di più è stato Luigi Magni.
«Con “In nome del popolo sovrano” mi ha regalato il ruolo più bello della mia vita. Sul set era lieve, divertente, faceva battute, la troupe lo adorava».
In teatro è stato diretto anche da sua moglie Anna Ferruzzo in “Vu come Vian”, uno spettacolo dedicato a Boris Vian. Cosa significa avere due donne di famiglia a darle ordini?
«Anche qui il primo vaff… era sempre per me. Anna, come Lina, è un soldato della disciplina. Io sono più cialtrone. Se mi togli il gioco fine a se stesso, muoio. Devo andare in scena con un senso di sfida».
Dipenderà dalla scuola di Gigi Proietti?
«Proietti mi ha insegnato la gioia di stare in scena perché, pur essendo lui molto disciplinato, aveva un forte senso del gioco».
Si è divertito a interpretare Mastro Titta in Rugantino, il ruolo che per primo fu di Aldo Fabrizi?
«Ecco, appunto. Le racconto cosa è successo alla prima. A un certo punto sento il pubblico che ride quando non c’era niente da ridere. Mi erano caduti i pantaloni e non me ne ero accorto».
E quindi?
«È partito l’applauso».
Un ruolo che vorrebbe interpretare?
«Ulisse. L’uomo contro l’autorità. Il dubbio, la mente colorata. Che grande sceneggiatore che era Omero!».