Con la sua grazia innata e anche il suo senso pratico, Susanna Galeazzi ci spiega subito cosa significhi portare il nome di uno dei più popolari reporter sportivi della tv spontanea e coloratissima tra la metà degli anni ’70 e fino agli anni ’90. E, allo stesso tempo, ritagliarsi un proprio spazio nello stesso ambito lavorativo, quello del giornalismo. «Essere figli d’arte non vuol dire ereditare la grandezza del proprio genitore, o comunque le sue qualità. Nel mio piccolo ci provo sempre».
Suo papà Gian Piero, è stato un grande protagonista del racconto sportivo, che cosa le ha lasciato?
«Come dico sempre, la fortuna di aver avuto un padre come il mio non è stata solo il fatto di aver ricevuto dei valori, come capita sempre per ogni padre o comunque per ogni brava persona. La cosa più importante è che mi ha lasciato imparare da sola. A costo di farmi sbattere la testa contro i problemi. Quando mi trovavo davanti a una scelta, lo chiamavo e lui mi diceva: tu come faresti? Giusta o sbagliata che sia la tua decisione, impari più velocemente. Alla fine, in questo modo, mi sono sentita sempre molto libera».
Non male, direi. Che giornalista era Gian Piero Galeazzi?
«Credo che sia stato un innovatore, un performer geniale perché aveva inventato un suo modo di fare le interviste, entrando in campo, inseguendo i personaggi. Era fuori dalle righe, non seguiva un copione scritto ma agiva d’istinto. Faceva le domande sulla base delle emozioni che in fondo sentivano tutti. Ed è quello che provo a fare io quando intervisto qualcuno».
Improvvisava sempre?
«Non seguiva nessuna didascalia, nessuna tecnica. Era schietto, svelava il suo lato umano, genuino, non c’era nulla di preparato, nessun meccanicismo».
Che cosa le raccontava degli sportivi di allora?
«Il suo periodo è stato forse il più bello in assoluto, ha vissuto due decenni di sport tra i più ricchi di avvenimenti e vittorie per l’Italia. E si divertiva molto. Se ho scelto questo lavoro è perché lo vedevo sempre entusiasta, tornava a casa stanco ma appagato. È vero che era sempre fuori, ma mi ha insegnato che non conta tanto la quantità del tempo che dedichi ai tuoi figli quanto la qualità: è importante come ti poni con loro, non quanto ci sei».
Eppure, lei ha preferito la musica allo sport prima e alla cronaca poi.
«Un giorno, dopo aver condotto per anni il Tg5 in tutte le fasce orarie, sono andata dal direttore Mimun e gli ho detto che volevo seguire la musica. È stata una svolta. Ora sono quattro anni che mi occupo di musica per il Tg5, a parte i casi di emergenza come la recente pandemia per i quali torno a fare cronaca. Normalmente realizzo servizi per il Tg5 e per Canale 5, oltre alle edizioni principali, seguo la musica, gli artisti, la cultura – anche popolare – del nostro paese che da sempre fa riferimento ai grandi autori della canzone italiana».
Leggo nel suo profilo social una citazione dei Rolling Stones…
«Sì, sono rockettara. Seguo Vasco Rossi, per esempio, ormai da dodici anni grazie al mio direttore, che è suo amico. Ho questa passione. E poi sono convinta che il rock non sia solo musica ma uno stile di vita che non vuol dire che sia sempre e solo, banalmente, spericolata. Il rock è anche tante altre cose».
Come si trova in questo contesto?
«Benissimo, felicissima. Avevo iniziato con lo sport grazie a papà, ma sentivo che non era nelle mie corde. Poi ho avuto l’opportunità di abbracciare la musica».
Mimun ha raccontato proprio a IDEA il suo rapporto con Mogol.
«Ho avuto la fortuna di conoscere autori come Gulio Rapetti, appunto Mogol, e di scoprire nel suo caso qualcosa in più dell’alchimia delle canzoni di Lucio Battisti che nel tempo non hanno perso smalto, anzi, sono diventate ancora più potenti».
A proposito: oggi il rock esiste ancora?
«Ma a me piace tutta la musica, sono cresciuta con De Gregori, Fossati e De Andrè e quella non era musica rock, piuttosto leggera, pop. Per capire la musica di oggi devi poter condividere lo stesso linguaggio, la musica è anche trap e rap, che andava forte trent’anni fa in America, è un modo di comunicare deciso, diretto, funzionale. La bellezza della musica è universale, parla tante lingue».
Ad Alba intanto è passato il fenomeno Blanco.
«Sì, come al solito è stato un successo. Questi ragazzi hanno trovato il modo di esprimere quello che sta succedendo oggi, è un’altra fotografia di questo tempo. Prendiamo anche i Maneskin che sono pazzeschi e sì, loro fanno rock, hanno scelto una strada che mancava da tanto».
Tornando al giornalismo, sono tempi duri?
«Da qualche anno è una questione particolarmente delicata, è più complesso trovare un equilibrio. Credo che si debba cercare la verità senza affidarsi solo a internet e ai social che spesso nascondono fake news. E bisogna usare un linguaggio che ci permetta di arrivare a tutti».
In pandemia però i tg sembravano raccontare una realtà diversa.
«Il giornalista deve ricordare che è sempre un mezzo, non è il principio o la fine della notizia, noi siamo stati un mezzo per trasmettere ciò che il governo o la comunità scientifica ci dicevano. Durante l’emergenza il Tg5 lo ha sempre fatto senza creare allarmismi».
Ora accade anche per la crisi economica?
«Siamo attenti, in ogni edizione, agli avvenimenti di attualità come alla guerra, alla pandemia e alla crisi economica dalla quale sembra davvero non esserci via d’uscita. Però informiamo sempre in maniera essenziale perché creare allarmismi è inutile».
E ai giovani possiamo finalmente dare un messaggio positivo?
«È per quello che dico no agli allarmismi, perché se non crediamo nel futuro e non ci concentriamo sulla nuova generazione, commettiamo un grave errore. Specie in un paese come l’Italia dove poi ci lamentiamo che i cervelli scappano e i mammoni restano. A parte che non è vero, anche nella musica ci sono tanti giovani che hanno voglia di fare».
Abbiamo un potenziale?
«Prima della pandemia, il turismo era al 13 per cento del pil, ma il potenziale non è solo per paesaggio, cultura, gastronomia, arte. Credo andrebbe sfruttato molto meglio, un paese come il nostro».
Quest’estate quale concerto vorrebbe vedere?
«È in tournée adesso, ma non posso andarci. Quello di Paul McCartney, ho ancora il sogno di poterlo un giorno conoscere. Amo i Rolling Stones come i Beatles e confesso che mi piacerebbe farmi ricevere da sir Paul».