Otto anni senza Giorgio. C’è malinconia nella voce di Roberta Bellesini, moglie di Giorgio Faletti per 14 anni, ma tristezza mai. Il 4 luglio sono trascorsi otto anni da quando il comico, scrittore, musicista, sceneggiatore, è morto, stroncato da un tumore. «Non c’è giorno che non lo pensi e riesce sempre a strapparmi un sorriso» dice Roberta.
Che cosa le manca più di lui?
«Potermi confrontare su tutto, parlare. Era il mio punto di riferimento, aveva un pensiero sempre lucido, era bravo a stimolarmi, a convincermi a mettermi sempre in gioco. E mi manca molto anche fisicamente, noi passavamo tantissimo tempo insieme: mi manca la nostra quotidianità e la sua sostenibile leggerezza dell’essere».
Giorgio Faletti ha iniziato la carriera e raggiunto il successo come comico, memorabili i suoi personaggi a Drive In. Quale era il suo preferito?
«Lui li amava tutti, ma quando ricordava Vito Catozzo diceva sempre che questo era l’unico personaggio che non interpretava, lui diventava Vito Catozzo».
La sua comicità lo ha portato ad un grande successo, qual è il segreto?
«Lui faceva ridere raccontando il personaggio della provincia, del piccolo paese, quello che poteva essere il vicino di casa di tutti. Raccontava quella che era stata la sua realtà per anni, ma che era quella di tutti».
Faletti era un comico anche nella vita?
«Il far ridere faceva parte di lui, del suo carattere. A cena con gli amici, ma anche a casa tra di noi era sempre pronto alla battuta».
Come vi siete conosciuti?
«Nell’Astigiano a casa di amici comuni guardando la finale degli Europei di calcio con un bel piatto di spaghetti al pomodoro in mano. Alla fine della partita abbiamo cominciato subito a chiacchierare e lui con grande entusiasmo aveva cominciato a raccontarmi dell’ultimo progetto al quale stava lavorando che era un album di canzoni che sarebbe uscito di lì a poco. Ci siamo conosciuti un po’ meglio e nel giro di sei mesi è arrivata la dichiarazione ufficiale».
Qual è il ricordo più bello che ha di lei e Giorgio?
«Sicuramente il viaggio, lungo tre mesi, che facemmo nel 2006 in Arizona, Yutah e New Mexico. Solo io e lui, in posti stupendi, a contatto con realtà incredibili come quelle degli indiani Navaho. Un viaggio che ci ha uniti ancora di più. Adesso, quando mi prende un po’ di malinconia, vado a rivedermi quelle foto. E torno a sorridere».
Alla morte di Giorgio lei prese l’impegno di portare a compimento tutti quelli che erano i progetti di suo marito, glielo chiese lui?
«Giorgio aveva l’ansia di avere ancora tante cose da fare. Mi è sembrato giusto e doveroso nei suoi confronti provare a concludere quello che lui non aveva fatto in tempo. Come “L’ultimo giorno di sole”, lavoro al quale Giorgio si è dedicato fino a che ne ha avuto le energie. Nell’estate del 2013 decise di scrivere un monologo per una nostra amica attrice bravissima che si chiama Chiara Buratti. Giorgio ne avrebbe voluto fare la regia quindi, sperimentare il ruolo di regista teatrale. Inizia quindi a scrivere questo monologo che si compone anche di sette pezzi musicali scritti proprio appositamente per questa storia, una sorta di teatro canzone e musica. Poi purtroppo Giorgio muore a luglio del 2014. In questo lavoro aveva messo tutte le sue ultime energie e quindi, dopo un po’ di mesi verso la fine di quell’anno pensai che non poteva rimanere un lavoro incompiuto. A un anno esatto dalla sua scomparsa abbiamo portato lo spettacolo in scena al Teatro Alfieri ad Asti. C’è stata poi la bellissima esperienza americana, abbiamo presentato lo spettacolo a New York ad un concorso nel quale vengono scelti otto spettacoli italiani per raccontare che cos’è il teatro italiano a New York. Di tutti gli spettacoli italiani che hanno fatto quel concorso è stato scelto il nostro e quindi è stato portato sui palcoscenici di Manhattan. È stata un’esperienza meravigliosa e emozionante».
Giorgio Faletti ha collezionato un successo dietro l’altro: da cantante e musicista (con Signor Tenente vinse Sanremo e ottenne il disco platino per 100 mila copie vendute) a scrittore con 5 milioni di copie del suo romanzo di esordio “Io uccido”. Da cosa è nata la sua passione per la scrittura?
«Giorgio era innanzitutto un grandissimo lettore, lui leggeva da quando era ragazzino, si era appassionato alla letteratura americana. Cominciò a seguire e ad appassionarsi a due scrittori in particolare. A Jeffery Deaver e anche a Michael Connelly. S’innamorò profondamente del genere thriller americano, gli piaceva il meccanismo con cui venivano costruite queste storie. Giorgio forse anche un po’ inconsciamente aveva cominciato ad acquisire i meccanismi della scrittura thriller americana. Poi, a un certo punto, ha abbandonato la televisione e aveva più tempo libero per cui, decise di cimentarsi nella scrittura di questo romanzo. Cominciò ad elaborare la trama. Scelse di ambientarlo a Montecarlo perché era un posto che conosceva bene e anche perché nessuno aveva mai ambientato un thriller così sanguinoso nel principato di Montecarlo. È stato un successo straordinario, ora diventerà una serie tv in 12 puntate. Giorgio ne sarebbe orgoglioso, il suo desiderio più grande era vedere un suo libro diventare un film».