Già Wikipedia lo “tratteggia” con un fascino di assoluta caratura: «Chiamato il campionissimo da molti appassionati, dopo le tante vittorie, ha messo la sua esperienza a disposizione della Federazione di Pallapugno impegnandosi in organizzazioni di eventi e competizioni pallonistiche. Nel 2006 fu tedoforo trasportando la fiamma olimpica per i XX Giochi olimpici invernali di Torino». Per la Rivista IDEA abbiamo chiacchierato con Felice Bertola.
Lei protagonista di un libro che – immaginiamo – le trasmetta forti emozioni.
«È un’ampia e approfondita descrizione, fatta molto bene, della mia carriera da giocatore. Io sono stato quello che è raccontato nel libro. Partendo da quand’ero un ragazzino, delle prime partite a Gottasecca quando avevo 5-6 anni. All’epoca non si sapeva manco cosa fosse il calcio! Quasi tutti i giorni, con i miei amici, giocavamo a pallapugno davanti a un caseggiato e facevamo rimbalzare il pallone sul tetto. A Monesiglio formarono una società sportiva, poi andai a giocare a Torino. È il racconto del paese nel Dopoguerra. Se chiudo gli occhi rivedo tutto. Alla presentazione ci sarà talmente tanta gente che sarò in difficoltà (ride, ndr)».
Lei è un “mito del balon”.
«Ho dedicato tutta la mia vita per questo. Ho avuto la fortuna di incappare in pochi infortuni muscolari. E, parlando di fortune, una di quelle più grandi l’ho avuta incontrando il preparatore atletico Elio Locatelli (scomparso nel 2019 a 76 anni, ndr), ex preparatore della Nazionale Italiana di Atletica Leggera e figura chiave italiana e mondiale, come tecnico e dirigente in quello sport. Era di Santo Stefano Roero. Lui era, anche, un grande amante della pallapugno. Grazie ai suoi allenamenti e ai suoi metodi, ho allungato la carriera di almeno 10 anni. Infatti, a 42 anni sono risultato ancora Campione d’Italia. Quel successo fu tutto suo. Era serio, mi allenava con cura e metodo».
Ed è anche un “eroe delle alte Langhe”.
«Sono sempre rimasto molto attaccato a Gottasecca. Quando ero nel pieno della carriera, tornavo al paese la sera. Ho abitato a Torino, ad Alba (tutt’ora si divide tra Gottasecca e Alba, ndr), ma il mio paese ha un significato particolare. Essere un gottasecchese è capire che qui c’è casa. Mi sentivo e mi sento a casa solo qui».
Un libro che sarà sicuramente apprezzato.
«Per un motivo, almeno: chi lo legge deve capire che a Gottasecca si vive in modo semplice e genuino, amando la campagna e la terra. E che se si nasce con un istinto sportivo, bisogna coltivarlo. Ma non basta, poi bisogna allenarsi, curarsi e mantenersi sempre al top, con sacrifici e impegni. Alle giovani leve può lasciare molto, io ho raccontato tutto me stesso partendo dal lato sportivo».
La sua è stata una carriera da 14 Scudetti.
«Ho avuto la fortuna di fare il lavoro che mi piaceva. Ci ho sempre messo serietà e concretezza, senza stravaganze. Io e Massimo Berruti siamo stati due campioni alla pari. Dopo ogni Scudetto, venivano meno la spalla e il terzino. Ogni anno era una grande sfida perché lui è stato molto forte. Ma questo lasciamolo giudicare ai tifosi».
E il balon di oggi?
«In questa stagione ho visto poche partite. Massimo Vacchetto è davvero forte. Senza dimenticare Bruno Campagno. Poi ci sono tanti giovani interessanti e la Serie A ha dato tante indicazioni in questo senso. Però, rispetto alla passata stagione, gli equilibri e le forze in campo sono cambiati tantissimo come testimoniato dai risultati».
Quale futuro immagina per questo sport?
«Spero nei giovani e nei nuovi giocatori che verranno. Spero che rimanga sempre la voglia e il fascino di andare allo sferisterio ad assistere ad un autentico spettacolo».