Noto al grande pubblico per essere parte della Premiata Ditta, quartetto comico formato anche da Pino Insegno, Tiziana Foschi e Francesca Draghetti, Roberto Ciufoli ha sempre affiancato partecipazioni autonome nel cinema, dove è stato diretto, tra gli altri, da Sergio Corbucci, Alessandro Benvenuti, Fausto Brizzi e, in tv, presente in numerose serie di successo come “Distretto di polizia”, “Don Matteo”, “Rocco Schiavone”. Ma i suoi albori sono in teatro, quando fondò, appena ventenne, “L’allegra brigata”, insieme a nove compagni di ventura tra cui Insegno e Massimo Popolizio, ormai esponente del più serio e accreditato teatro di prosa. Teatro che vede sempre più spesso impegnato anche lui, sia come attore sia come regista. Recentemente, infatti, ha diretto “Il Test”, un’esilarante commedia che ha spaccato in Spagna e in Italia ha avuto due anni di tournée da tutto esaurito.
Le chiedo subito di parlarmi della sua attività di regista.
«La preferisco persino al recitare. È emozionante vedere il disegno realizzarsi e il prodotto crescere insieme al lavoro degli attori che si evolve e modifica in funzione di un risultato comune».
Si considera un regista democratico?
«(ride) La democrazia in teatro non esiste. Definirei il teatro una monarchia costituzionale, un po’ come la famiglia reale d’Inghilterra, che però poi deve rendersi conto di quel che vogliono i sudditi».
Il pubblico?
«No, la compagnia. Non ho mai pensato al pubblico come a un parametro che possa orientare la creatività. Anzi, casomai è il contrario. Presentare qualcosa che prima non c’era, una novità che possa sorprenderlo e poi, solo dopo, rientrare nei suoi gusti».
C’è una differenza, dal punto di vista della creazione dello spettacolo, tra un regista “puro” e un regista che è anche attore?
«Sì e credo che essere anche attore sia sicuramente un vantaggio. Conoscere e vivere sulla propria pelle le difficoltà del mestiere aiuta a dosare le forze, a lasciare a ognuno il tempo suo proprio per raggiungere il risultato».
I testi recenti che l’hanno vista coinvolta sono entrambi di autori spagnoli, anni fa recitò in “Americani – Glengarry Glen Ross” di David Mamet diretto da Sergio Rubini. La drammaturgia italiana langue?
«No, la drammaturgia italiana c’è, mi viene in mente Edoardo Erba, Gianni Clementi, Pierpaolo Palladino ma io auspico uno sviluppo ulteriore della drammaturgia contemporanea, sia italiana sia straniera. Siamo ancora troppo legati ai grandi capolavori del passato, grandi nomi e titoli di richiamo. Lo penso anche dal punto di vista dei giovani, dei ragazzi, portati a vedere l’ennesimo Pirandello, che magari non sono ancora in grado di capire. Bisogna stare attenti perché se a sedici anni un ragazzo si annoia, vuol dire che hai perso uno spettatore di domani».
A proposito di ragazzi, lei ha due figli maschi. Che padre è?
«Immodestamente mi faccio i complimenti. Ho due figli che hanno ben ventun anni di differenza. Il primo 26 e il secondo sta per compierne sei. Con il grande ho un rapporto di complicità spinta, di grande confidenza. Cerco per entrambi di rappresentare un modello di libertà di pensiero, il che presuppone di avere un pensiero».
Veniamo ai suoi esordi. Quelli de “L’allegra brigata” in cui era più giovane del suo figlio maggiore.
«Il primo titolo era stato “Giulio Cesare”, ma non lo dite a Shakespeare. Popolizio faceva Giulio Cesare e io Bruto, interpretavamo una coppia omo con grandissimo divertimento. Massimo aveva vent’anni e già si capiva che era una spanna sopra la media e quando giochi ad alto livello con qualcuno bravo, è un gran godimento».
Lei si considera un attore comico? Ha senso la distinzione tra comico e tragico?
«Credo che ci sia un grande equivoco che riduce la comicità a qualcosa che ha a che fare quasi con il raccontare barzellette. In realtà la comicità è spingere sull’acceleratore, è un passo avanti alla tragedia perché per fare ridere devi conoscere anche il tragico sennò la risata non arriva. Poi il possedere o meno i tempi comici è un fatto naturale, ognuno ha i suoi propri e deve farli risuonare».
Ho visto che è testimonial di SyB ovvero Save your Breath, un nuovo metodo di allenamento del respiro messo a punto dalla sua collega Sarah Biacchi. Di cosa si tratta esattamente?
«È un sistema interessantissimo di stimolazione che serve ad aumentare la capacità respiratoria e a perfezionare la gestione del diaframma e quindi l’uso della voce anche attraverso un allenamento muscolare».
È vero che la voce si può “modificare”?
«La voce dipende da tanti fattori che prescindono dalla volontà come la conformazione fisica, la morfologia e la lunghezza delle corde vocali. Però è vero che si può allenare e rinforzare. Una vocina delicata può essere sicuramente rinforzata con l’esercizio. La voce di Vittorio Gassman era proprio una voce costruita grazie a un allenamento mirato ed è diventata la sua caratteristica».
So che è un grande sportivo.
«Più che un grande sportivo sono uno sportivo grande: sono invecchiato. Però lo sport è parte della mia vita. Pratico nuoto, canottaggio, mi diverto molto a remare sul Tevere e a galoppare sui campi di polo, sci su neve e nautico, tennis, padel».
Ho capito, è un atleta mancato.
«Ho fatto l’Isef e ho anche fatto l’istruttore per un breve periodo poi il teatro ha avuto la meglio. Non riuscivo a tenere il piede in due scarpe e ho scelto, cioè ho fatto un salto nel vuoto».
Vero è che per fare teatro il fisico aiuta.
«Certo. Per recitare serve un fisico sano e lo studio del movimento è indispensabile. Il gesto in teatro è come una battuta. E c’è un legame strettissimo tra voce, stato d’animo e postura. L’appoggio dei piedi, per esempio, è fondamentale. Se devi comunicare che hai fretta, l’appoggio sarà più insicuro, come se la terra scottasse. Se devi rappresentare un dittatore, avrai le gambe larghe e i piedi solidamente poggiati a terra».
E magari le mani sui fianchi?
«Appunto».