«I sapori sono ricori dove la mia Sicilia si unisce al Piemonte»

Fabio Ingallinera è lo chef del ristorante stellato “Il Nazionale” di Vernante. «Ascolto i racconti in paese e prendo spunti altrove. Acciughe e peperoni i punti di contatto. Il segreto? Una brigata felice»

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«Quassù non vi­vo in me, ma divento una parte di ciò che mi attornia. Le alte montagne sono per me un sentimento». Si apre con una citazione del poeta e politico britannico Lord Byron il sito del ristorante fresco di stella Mi­chelin “Il Nazionale” di Ver­nante in cui, fin dalle prime battute, appare evidente la volontà di portare i sapori e i profumi delle vette al centro della cucina dello chef Fabio Ingallinera. Burro, lavanda, pecora sambucana ma anche lumache, anguille, aringhe si incontrano in un menù che dichiara la sua appartenenza al territorio senza temere le contaminazioni con il Sud. Anche parlando, durante la nostra intervista, Ingallinera usa con disinvoltura i termini piemontesi, ingentiliti da un accento che ne svela la sicilianità.

Complimenti, siete l’unico ristorante delle montagne cu­neesi ad aver guadagnato l’ambita stella Michelin. Ades­so che cosa cambierà?

«Continueremo per la nostra strada basata sulla passione per le materie di questo territorio, come l’agnello sambucano, i bovini di razza piemontese, i formaggi di alpeggio, il latte e il burro che prendiamo in una frazione di Vernante a 1.400 metri di altitudine. Si parte dai piatti della tradizione, senza timore di prendere spunti altrove, soprattutto dai miei ricordi di bambino, in Si­cilia. La nostra è una cucina di montagna contemporanea. Ora, dopo questo riconoscimento, porremo ancora più attenzione anche alla nostra comunicazione».

Lei è siciliano, da chi attinge per riscoprire la tradizione del luogo?
«Dalle storie che ascolto in paese sui cibi di una volta. Come la polenta, piatto che non mancava mai sulle tavole di un tempo. Veniva cotta sul putagè, la stufa a legna, per ore e ore fino a che prendeva un sapore leggermente tostato, una nota quasi affumicata. C’è un tetto qua nel ristorante dove si trova ancora una vecchia stufa e qui ho conosciuto i segreti della polenta concia, a cottura lentissima condita con formaggi avanzati e burro freschissimo. Cibo che serviva da sostegno, che riempiva la pancia, ma in grado anche di regalare soddisfazione e appagamento».

Qualche sapore piemontese le ha riportato alla memoria la sua Sicilia?

«Sì, la Liguria vicina e gli scambi commerciali attraverso la Via del Sale hanno portato qui diversi pesci conservati come le acciughe che, con il loro spiccato sapore deciso, mi riportano ai pesci della mia Sicilia. Un altro diretto collegamento con la mia memoria palatale sono i peperoni sotto raspo, messi sotto aceto per conservali per l’inverno, che hanno il sapore della peperonata agrodolce siciliana. Esi­sto­no gusti affini tra le due regioni che mi riportano indietro nel tempo. Nei miei piatti cerco sempre una connessione tra il territorio in cui vivo e la mia personale esperienza».

Ultimamente assistiamo a un ritorno alla montagna di giovani chef e imprenditori che han­no aperto nelle valli ristoranti, ostelli, allevamenti di animali. È così anche da voi?
«Sì. Anzi, in Valle Vermenagna forse anche più di altrove, considerando la grande offerta dei servizi. Io stesso mi sono trasferito qua da lontano, come hanno fatto molti ragazzi del nostro staff».

Secondo lei si tratta solo di una fase o un’operazione destinata a modificare l’economia della montagna per i prossimi de­cen­ni?

«Siccome dietro ci sono spesso progetti personali importanti, credo possa essere davvero un volano per un ripopolamento efficace della montagna. Si tratta di investimenti a lungo termine, sfide i cui risultati non si vedono nell’immediato ma chi si ferma qui è perché ci crede. Sono fiducioso anche perché ora la montagna è decisamente più facile da vivere rispetto a trent’anni fa quando bastava una nevicata per isolare il paese per giorni».

Qual è l’ingrediente che non può mancare nella sua cucina?

«Tutti i pesci di acqua dolce, quelli della tradizione montana, come le trote, i salmerini, gli storioni, baccalà e, ovviamente, le acciughe».

Il piatto che la fa sentire a casa?

«Il peperone, per il sapore che mi evoca la Sicilia. Molte preparazioni mi rimandano al­l’infanzia quando mia mam­ma e le mie nonne preparavano il peperone arrosto, cucinato sulla brace. Poi si sfilacciava e si condiva con sale, olio, aceto e basilico. È un’insalata estiva che si prepara giù da me. Nel mio menù c’è il peperone arrosto preparato con un paté di tonno e una gelatina di peperone crudo, acciughe e capperi. Ha un sapore estremamente tradizionale per i piemontesi ma dentro io ci sento i miei ricordi e il sapore della Sicilia».

Concludiamo con una citazione presa dal cartone animato “Ratatouille”. “Chiunque può cucinare ma solo gli intrepidi possono diventare dei grandi”. Quali sono le doti fondamentali di un grande cuoco?
«Il carattere, prima di tutto, e la pazienza. Poi la curiosità di conoscere a fondo il territorio, attraverso racconti, storie, aneddoti, per poterlo interpretare. Non ultima la capacità di creare un ambiente sereno in cui lavorare, aspetto su cui al “Nazionale” puntiamo molto, in modo che lo chef e la sua brigata subiscano lo stress tipico di questo lavoro il meno possibile».

Qual è il suo segreto?
«Questo lavoro esige spirito di sacrificio perché richiede mol­to del proprio tempo. Cer­chiamo però di mettere dei paletti, abbiamo scoperto in­fatti che migliorare la qualità della nostra vita fuori dalla cucina produce effetti miracolosi ai fornelli. Il risultato è una brigata felice, con pochissimo turnover».

Per essere un grande chef conta di più la creatività o il metodo?

«Il metodo è fondamentale perché permette di replicare un piatto. Non siamo artisti ma produciamo in effetti piccole opere che però vengono consumate, non restano lì per essere ammirate. Le materie prime cambiano, la giornata cambia, anche i metodi possono cambiare ma il pensiero deve restare quello originale per offrire a chi assaggia sempre la stessa emozione».