Mai come in questo particolare momento storico è bene affidarsi alle idee. Solo le “trovate” innovative, lungimiranti e coraggiose possono spingerci oltre l’incertezza. Assume dunque una valenza speciale il riconoscimento che giovedì scorso, a Istanbul, il presidente dell’Uefa, Aleksander Ceferin, ha attribuito a uno dei massimi “maestri delle idee”, l’ex allenatore Arrigo Sacchi. Con il premio sono state riconosciute all’ex tecnico di Milan e Nazionale le «infinite innovazioni» introdotte nello sport del pallone e, più in generale, è stato dato lustro a un modello basato sul collettivo e sullo spirito di sacrificio che ancora oggi fa scuola, non solo in ambito sportivo. Un modello tanto contemporaneo quanto trasversale, quello di mister Sacchi, uno dei più grandi tecnici della storia del calcio, i cui principi sono emersi in maniera chiara anche nel corso dell’intervista che ci ha rilasciato, in esclusiva, nella sua abitazione di Milano Marittima, proprio pochi giorni prima di partire per la Turchia.
Sacchi, iniziamo dal secondo posto della “sua” Italia ai Mondiali di Usa ’94. Cosa successe dietro le quinte?
«Prima una premessa più che doverosa: nessuna nazionale europea era mai riuscita a imporsi oltreoceano. Tradotto: arrivare in fondo al torneo e conquistare la Coppa era un qualcosa di particolarmente difficile. In più si aggiunsero alcune condizioni non particolarmente favorevoli…».
Ovvero?
«Disputare le partite eliminatorie lungo la Costa Est dell’America. Di notte, a Ovest, le temperature davano una tregua, scendendo anche a 15 gradi, cosa che invece non accadeva a Est, dove la colonnina di mercurio restava perennemente inchiodata tra i 29 e i 32 gradi. E in più c’era un tasso di umidità vicino al 100%. Ciò complicò non poco il riposo e il recupero dei nostri giocatori…».
Sulla Costa Est, però, abitavano tanti migranti italiani pronti a darvi sostegno…
«È quello che ci dissero dal Governo. Ci venne assicurato che avremmo avuto tutto il tifo dalla nostra parte».
Non fu così?
«Prima partita: Italia-Irlanda. Si gioca al Giants Stadium di New York, 75mila spettatori. Lo staff ci disse che praticamente tutti i biglietti erano stati acquistati da supporter italiani. Arriviamo allo stadio e all’esterno vediamo solo bandiere irlandesi. Gli accompagnatori ci tranquillizzano: troveremo i nostri tifosi all’interno. Dentro lo stadio, stesso copione: 65mila tifosi irlandesi, appena 10mila italiani. Chiedo spiegazioni e mi rispondono: “Probabilmente gli italiani hanno rivenduto i biglietti”… Tutto ciò per dire che fu un Mondiale in salita».
Però riusciste comunque ad arrivare in finale…
«Sì, tra difficoltà e stanchezza, come dicevo. I massaggiatori mi dissero che i giocatori erano addirittura rimasti senza muscolatura per via dello sforzo sostenuto…».
Cosa fece la differenza?
«Tanto orgoglio e una buona organizzazione di squadra. Solo così riuscimmo ad arrivare in finale e a portare il Brasile ai rigori, dove purtroppo perdemmo».
Si può entrare nella storia anche con un secondo posto?
«Sì, ma non nella nostra cultura, specialmente in quella del calcio: non si va mai oltre il primo posto. Si specula sempre e soltanto attorno alla vittoria e si perdono di vista l’essenza e il significato di questo sport».
Quali peculiarità ha perso il calcio?
«Il calcio era stato pensato dai padri fondatori come uno sport di squadra offensivo. Nel tempo lo abbiamo tramutato in uno sport individuale difensivo».
Come sta l’Italia pallonara?
«Purtroppo il calcio è lo specchio della storia e della cultura di un Paese e se il Paese in questione non funziona anche il calcio mostrerà problematiche. A livello sportivo, in Italia, ci sono molti allenatori bravi sul fronte tattico, meno in termini di strategia; a livello internazionale si vince soprattutto con la strategia e con il collettivo. Ecco alcuni motivi per cui la Nazionale e le squadre italiane, all’estero, pagano dazio».
Cosa ne pensa del “suo” Milan campione d’Italia?
«Tra le squadre più blasonate, il Milan è sicuramente una tra quelle che investe meglio e, di conseguenza, ha bilanci migliori. Punta meno sui soldi e di più sulla competenza e sulle idee. È una linea che mi piace e che approvo».
Le piace anche come gioca?
«È una delle poche formazioni italiane a giocare con il collettivo, coinvolgendo tutti gli undici giocatori in campo. Quindi, sì, mi piace! In generale, il club si sta perfezionando e sta crescendo. Sta cercando di fare ciò che questa grande società ha sempre fatto, anche nei momenti più complicati: ovvero portare bellezza ed emozioni. Il Milan non è club qualsiasi e io gli sono estremamente riconoscente».
Accennava ai problemi dell’Italia…
«Il nostro è un Paese che tradisce i valori: vuole vincere, ma non gli interessa come. E dire che fino al 1400-1500 tutto il mondo guardava l’Italia con ammirazione. Eravamo il riferimento, sapevamo illuminare. Nel Novecento, per un lungo periodo, siamo stati il faro anche per quanto riguarda la formazione dei giovani… Tutti venivano a formarsi e a studiare qui. Ora, invece, sono i nostri giovani ad andare all’estero».
Qual è la chiave per la ripartenza?
«L’istruzione. Qui non si è più investito sugli insegnanti. Si rischia l’impreparazione. E poi c’è il problema del riconoscimento del ruolo che pesa molto. Un professore in Spagna percepisce uno stipendio doppio rispetto a quello italiano, in Francia guadagna il triplo, in Germania il quadruplo. È normale che i nostri giovani scelgano altre strade».
Tutto qui?
«No, dobbiamo anche smetterla di pensare che la furbizia sia un merito. La furbizia è negatività».
Come si può contribuire a migliorare le cose?
«Essendo allenatori-educatori nella vita di tutti i giorni».
Come si fa?
«Al di là delle singole attitudini, occorre puntare sui valori. Quelli veri, i più autentici. Bisogna sempre amare quello che si fa e lasciarsi guidare dal fatto che si può sempre fare di più e meglio. È una certezza. Con questo approccio, probabilmente, ci verrà la gastrite, ma otterremo riconoscimenti e soddisfazioni che ci faranno vivere ogni situazione in modo sereno».
Chiudiamo con una battuta sul Piemonte. Cosa le evoca?
«Conosco e apprezzo i vostri vini e i vostri tartufi, oltre alla Ferrero, che mi invitò a intervenire nell’ambito di un’importante convention organizzata a Milano prima dei Mondiali del ’94. È parecchio piacevole anche il ricordo calcistico: con le mie squadre ho quasi sempre ottenuto bei risultati in Piemonte! (ride, ndr)».