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«Con i miei follower voglio condividere il piacere di creare»

Jago è la “rockstar dell’arte”: «Il marmo è il mio linguaggio universale. Con il “Figlio velato” parlo del dolore delle vittime e di tutti noi»

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Due anni fa, quando “Look down”, la sua scultura di neonato esposta in piazza del Plebiscito a Napoli, venne sfregiata da un gruppo di giovani delinquenti compiaciuti al punto da comunicarcelo su Tik Tok, Jago li invitò nel suo laboratorio.
Porgi l’altra guancia. Chissà se anche questa è la funzione dell’arte e chissà, soprattutto, se questa reazione farà davvero la rivoluzione. Chissà mai quale piacere può derivare dalla distruzione, dallo sfogare sulla bellezza la propria infelicità. E quanto saranno stati infelici coloro che lo scorso agosto hanno spezzato una mano alla statua in marmo nero del profugo accasciato a terra sul ponte romano di Castel Sant’Angelo, intercettando gli sguardi e i passi dei turisti.
Si intitola “In flagella paratus sum” (sono pronto al flagello) ed era già stata esposta sull’Ocean Viking nel Mediterraneo, in quel mare nostrum ormai tomba di uomini e donne che cercavano salvezza.

È una delle più recenti opere di Jago e dovrebbe essere venduta con una base d’asta di un milione e 250 mila euro, per devolvere tutto il ricavato alla Ong di soccorso in mare Sos Mediterranee. Lui, per chi già non lo sapesse, è uno degli artisti contemporanei più affermati, celebrato anche all’estero, nonostante la sua giovane età. Se ne parla come una sorta di rockstar, con provocazione, forse, ma non senza fondamento. C’è rottura, nelle sue opere e nel suo modo di porgerle: scardinamento di canoni, irruzione veemente di un pensiero autonomo che “aggredisce” la materia dura come il marmo e la fa parlare.

Cominciamo con un confronto impegnativo: per Miche­langelo l’opera era racchiusa nel marmo, presente in nuce e veniva realizzata “togliendo”. Le sue opere invece fanno pensare a un processo creativo che si muove in senso opposto, cioè aggiungendo. Penso, per esempio, a “Look down”, alla catena che avvolge il neonato. Sbaglio?
«Sono vere entrambe le cose. All’interno del blocco di marmo c’è un numero infinito di forme, poi bisogna trasformare l’idea in forma, dare forma a un’idea. L’artista ha la responsabilità di scegliere quale forma portare alla luce. Il marmo è il mio linguaggio, il mio mezzo e io vivo oggi, condizionato e calato in questo tempo. Per completare un’opera occorre tempo, tanto, e in questo tempo succedono cose. Io per tradurre in una forma un pensiero complesso devo scegliere a cosa dedicare il mio tempo, sento la necessità di affrontare ogni argomento senza retorica, ma cercando di comunicare al di là di questo tempo presente».

Al passato lei guarda come a un passaggio obbligato, come a un monumento a cui rendere omaggio o come a una lezione che non si esaurisce?
«Sono veri tutti e tre i modi. C’è un repertorio condiviso la cui proprietà emozionale è collettiva, e noi partiamo da lì, “rubiamo” e aggiungiamo qualcosa di nostro. Se tra mille anni qualcuno vedrà una mia opera, gli potrà parlare la scultura di una mano, non certo quella di un cellulare».

“La Pietà” in versione maschile, con quel volto straziato, è forse l’esempio più eclatante della sua operazione di rivisitazione. Pensa che il dolore maschile non sia sufficientemente rappresentato?

«La pietà è un sentimento che riguarda tutti, come la sofferenza e la gioia. In questo caso, il dolore del padre che raccoglie il corpo esanime del figlio, è un dolore simbolico che comprende tutti i dolori. Inoltre penso che sia l’amore paterno a essere poco rappresentato, più che il dolore. Io sono convinto che esista una tipologia di uomini in grado di provare il sentimento della pietà in modo altrettanto sincero e forte. Parlare del dolore e della sofferenza di una donna non significa dire che la sofferenza è donna».

La scultura del bambino morto in mare è stata aspramente criticata e accusata di parassitismo. Lei dal suo profilo social disse “Che non si dica lo stesso di chi ha scolpito il Cristo in croce”.
«Sì, e penso che sia giusto che un’opera sia iconograficamente vicina a temi che ci riguardano, ma il vero tema è riuscire, attraverso queste immagini, a generare riflessioni e a diventare anche altro. Le morti in mare ci riguardano tutti, come le morti in guerra. Perché quell’opera non è soltanto simbolo delle morti in mare. Il “Figlio velato” parla del dolore di tutte le vittime».

Chiaramente ispirata al “Cri­sto velato” di Giuseppe Sanmar­tino.
«Sì, ma lì c’è un uomo che consapevolmente si è sacrificato per il bene della collettività; qui un bambino vittima dell’inconsapevolezza e della consapevolezza di chi compie certi gesti. Figlio, perché ci riguarda tutti. La nostra società non è in grado di proteggere l’infanzia e noi dobbiamo squarciare quel velo non adatto a proteggere da tanti pericoli, di tutti i generi, compresi quelli del web».

Di cui lei è peraltro assiduo.
«Sì, il web è un grande mezzo ma è anche un bosco dai confini non delineati».

Schopenhauer distingueva tra genio e tecnica, dicendo che il primo è innato, la seconda acquisita. Concor­da?
«Non si potrebbe dire in modo migliore. Io tifo per il genio che deve essere in grado di rinunciare alla tecnica ma che senza la tecnica non potrebbe raggiungere gli stessi risultati. Si può rinunciare soltanto a quel che si possiede».

Ho una curiosità: nel rappresentare personaggi viventi, come nel caso di Benedetto XVI, si ispira a fotografie, momenti particolari, o a un’immagine sintetica presente nel suo archivio mentale?
«Anche qui c’è una dialettica tra immaginazione e fotografie che devono essere sintetizzate in un’immagine sola. È come se attraverso le fotografie si facesse un processo di studio che poi produce l’immagine finale. Se per esempio vuoi realizzare una mano, prima la studi anatomicamente».

Il processo: spesso permette ai suoi follower di assistere virtualmente alle sue creazioni.

«È la parte che amo di più, il processo, e credo che parte di quel piacere possa essere trasferita. Condividere il mio godimento del fare aiuta il fruitore a capire meglio le dinamiche sottese alla creazione dell’opera. Un po’ come mangiare le fettuccine fatte a mano da mia nonna dopo averla vista impastare sulla spianatoia: se conosco il processo le apprezzo di più».

BaNNER
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