Maria Teresa Furci lascia l’incarico di dirigente dell’Ufficio scolastico provinciale della Granda: dal 1° settembre ha preso servizio nel ruolo di rettrice del Convitto nazionale Umberto I di Torino.
Un incarico molto prestigioso, è contenta di intraprendere questa nuova avventura?
«Sì, molto. Sono contenta e soprattutto onorata di aver ricevuto la fiducia del direttore generale per ricoprire questo incarico così prestigioso».
Che cosa significa per il suo lavoro dirigere il Convitto?
«Il Convitto nazionale di Torino fu tra i primi ad essere istituiti nel 1848 dal re Carlo Alberto, con la finalità di educare e istruire giovani capaci e meritevoli per avviarli alle più alte carriere professionali. L’importanza di tale istituzione si incardina oggi nel ruolo fondamentale dell’educazione dei ragazzi e delle ragazze che qui risiedono, affidati dalle famiglie per l’intero ciclo degli studi liceali. L’attuale Convitto comprende, oltre al centro residenziale che ospita circa cento allievi/e, anche le scuole annesse, con oltre 1400 alunni e studenti semiconvittori distribuiti nei tre ordini di scuola: primaria, secondaria di primo grado e licei (classico europeo, classico Cambridge, scientifico internazionale, scientifico Cambridge, economico sociale). Dirigere il Convitto significa coordinare e dirigere una realtà complessa che comprende molti profili professionali di lavoratori, 320 tra educatori, docenti e personale Ata; una considerevole quantità di progetti educativi, personalizzati, di classe e di istituto; una moltitudine di relazioni con studenti e famiglie. Essere rettrice di un Convitto significa assumere la tutela legale dei convittori ed essere responsabile in prima persona sulla loro sicurezza e incolumità, con reperibilità 24 ore su 24 e 7 giorni su sette».
È contenta di lavorare in una grande città come Torino?
«Sicuramente dopo l’esperienza in provincia vivrò la città con un approccio diverso, più disteso e con una prospettiva più ampia. Ho già lavorato a Torino come dirigente scolastica dal 2012 al 2018 e ritornare in città rappresenta per me una ripresa degli spazi professionali e sociali che avevo interrotto in questi ultimi quattro anni. Sono contenta di ritrovare i vecchi colleghi e di riallacciare le relazioni di lavoro e le collaborazioni tra le scuole. Sono inoltre molto contenta di lavorare nel posto in cui vivo con la mia famiglia».
Come è stata la sua esperienza nella Granda?
«Questi quattro anni in Granda hanno rappresentato per me un’esperienza formativa molto importante dal punto di vista umano e professionale. Ho avuto modo di conoscere una realtà territoriale molto virtuosa, ben organizzata e altamente produttiva. Le collaborazioni con gli enti pubblici e privati sono state interessanti avviando ottime iniziative a vantaggio delle scuole del territorio».
Che cosa si porta via di positivo e cosa in negativo?
«Di positivo, tutta la bellezza di un lavoro interessante e utile al territorio, con la soddisfazione di aver raggiunto gli obiettivi istituzionali che mi sono stati assegnati. Porto con me anche il valore dell’amicizia che nel corso degli anni ho coltivato con le persone a me vicine nel lavoro. Di negativo ricorderò, ahimè, i lunghi viaggi in treno, o in auto, e le tre ore giornaliere sottratte al mio tempo. Porto con me, purtroppo, anche un peso sul cuore: l’idea che la Provincia abbia approvato un progetto che vede l’abbattimento dell’edificio del Provveditorato, senza averne compreso a fondo né l’utilità né i vantaggi, mi lascia perplessa e addolorata».
Sono stati anni complicati, due travolti dalla pandemia, è stato difficile affrontarli?
«Negherei la realtà se dicessi che sia stato semplice, ma ora che ci siamo lasciati tutto alle spalle e che l’angoscia ha lasciato il posto alla speranza, posso dire che gli anni della pandemia ci hanno fatto conoscere e mettere in campo le nostre migliori risorse. La rete di collaborazione tra le scuole e l’Ufficio scolastico, e tra questo e le altre istituzioni del territorio è stata fondamentale per affrontare con immediatezza e concretezza le criticità che si sono presentate».
Che cosa è stato più difficile?
«La difficoltà maggiore è stata, senza dubbio, quella di gestire e adeguare le azioni, sempre nuove, in conseguenza delle modifiche normative che puntualmente sono state emanate quasi settimanalmente in base all’evolversi dello stato d’emergenza sanitaria. Contemperare il diritto alla salute con il diritto allo studio, tutelando i lavoratori della scuola da una parte e gli alunni dall’altra, non è stato affatto semplice. Molto faticoso è stato seguire il tracciamento dei contagi con le messe in quarantena, nel rapporto con le Asl, nonostante la massima collaborazione da entrambe le parti. Difficile e doloroso è stato soprattutto costringere il distanziamento e annullare o ridimensionare tutte le attività che prevedevano il contatto e la vicinanza tra le persone: lavoro di gruppo, manifestazioni artistiche e sportive, viaggi di istruzione, giochi in cortile, mensa… Ma per fortuna quest’anno scolastico parte all’insegna della ritrovata normalità, con la speranza di avere già superato il peggio e, comunque, con l’aver appreso le più importanti regole di prevenzione al contagio».
Che cosa hanno patito di più i ragazzi secondo lei?
«L’isolamento sociale e la paura di essere portatori di contagio ai propri cari».
Riusciranno a recuperare gli anni in cui hanno studiato in Dad sotto tutti i punti di vista?
«Gli anni vissuti in Dad fanno ormai parte della loro storia e la capacità di superare gli effetti negativi causati dal distanziamento sta nella forza di ognuno di loro, oltre che dal supporto del contesto familiare e scolastico in cui vivono. Ci sono effetti della Dad che si ripercuotono negativamente sugli apprendimenti, altri sull’equilibrio psichico e sullo sviluppo emotivo. Per recuperare i primi, in assenza dei secondi, occorre solo avere un po’ di pazienza e tanta buona volontà. Per i secondi, ritengo sia indispensabile un supporto psicologico qualificato, sia per il singolo, sia per il contesto classe/famiglia. Parlo anche per esperienza personale in quanto ho una figlia di 15 anni che ha subito, e per fortuna superato, molte delle difficoltà descritte. Sono quindi molto fiduciosa nelle capacità di ripresa di una generazione molto versatile e ricettiva, se ben supportata dagli adulti di riferimento».