Dopo il percorso scolastico dalle scuole elementari fino al collegio, quando Roberto Scagnelli è diventato adulto e ha lasciato la zona degli Appennini, in provincia di Piacenza, per andare all’Università, la scelta è stata semplice: si è iscritto a Medicina e Chirurgia. Anche su consiglio del fratello ingegnere: «Non sei bravo in matematica, meglio se ti iscrivi a medicina, mi disse» ricorda Scagnelli sorridendo. Oggi, a 73 anni, da primario emerito e dopo una vita di riconoscimenti, ha ricevuto, a Farini d’Olmo, frazione Mareto, piccolo centro del Piacentino vicino al suo paese d’origine (Cogno San Bassano), il “Bisturi d’oro”, prestigioso premio che viene assegnato ai concittadini che si sono distinti nella professione medica.
E lei, professore, ha raggiunto i vertici: ripercorriamo la sua carriera?
«Mi sono laureato nel 1975 a Pavia e sono entrato all’ospedale di Savigliano dove sono stato per 25 anni. Poi sono passato a Fossano, per due anni, a Saluzzo per 10 e infine a Mondovì dal 2013 al 2018».
Lei è chirurgo ortopedico, qual è la sua specializzazione?
«Mi sono specializzato a Torino nel 1978 con una tesi sulla displasia dell’anca, quella che colpisce i neonati. A Savigliano ho lavorato molti anni con i bambini. Ancora adesso molti, diventati adulti, vengono a trovarmi ed è una grande soddisfazione per me. Negli anni successivi mi sono specializzato in chirurgia protesica di anca, ginocchio e spalla».
Chi è stato il suo maestro?
«Appena laureato, a Savigliano ho avuto la fortuna di lavorare con Giacomo Massè, che tutt’oggi è un luminare, a lui devo tantissimo. Insieme nel 1996 abbiamo realizzato il primo intervento di protesi all’anca, nella stessa seduta operatoria, su entrambe le gambe per uno sciatore molto famoso. Intervento perfettamente riuscito: ha continuato a sciare fino a quattro anni fa, poi ha dovuto smettere per raggiunti limiti di età».
A parte i traumi, quali sono i problemi che si riscontrano nell’anca, nel ginocchio o nella spalla?
«Sono i problemi legati all’usura delle articolazioni. A partire dai 50 anni, anche se poi dipende da fisico a fisico, possono cominciare ad esserci problemi. È inevitabile con l’avanzare dell’età».
È possibile fare prevenzione?
«È necessario. Bisogna svolgere attività fisica, però voglio fare una precisazione. Ogni ginnastica ha la sua età, se non si è più giovanissimi bisogna evitare sport che provocano traumi e dedicarsi a discipline più indicate. È poi fondamentale mantenere il peso forma. Anche in caso di intervento: una protesi messa su un ginocchio che deve sorreggere un peso eccessivo rispetto al peso forma, rischia di non dare un buon risultato. Tra gli integratori è utile l’acido ialuronico che rallenta l’usura delle cartilagini, ma bisogna sempre rivolgersi ad un medico. Dopo i 50 anni non sarebbe male fare un controllo. Ricordiamoci sempre che lo scheletro deve sorreggerci tutta la vita, bisogna imparare a trattarlo bene. È come una macchina, l’usura dipende anche da come viene utilizzata. Sono andato spesso a parlarne nelle scuole, è importante educare da piccoli. Ora, passata la pandemia, spero di riprendere questi incontri».
Nel 2004 a Saluzzo ha fondato la Onlus “L’uomo che cammina”, che ora ha la sede operativa all’ospedale di Mondovì. Di che cosa si occupa?
«Prima di tutto di far camminare le persone che, per svariate cause, hanno perso questa possibilità. Poi sponsorizziamo i giovani colleghi ad andare ad imparare nuove tecnologie. All’estero ma anche in Italia, dove esistono ormai molte eccellenze. Infine facciamo molta prevenzione, ad esempio nelle scuole per insegnare a proteggere il nostro scheletro spiegandone l’importanza».
Di recente ha realizzato un bel progetto con l’Università, di che cosa si tratta?
«Consentiamo agli studenti specializzandi in ortopedia e fisioterapia, un numero fino a 25, di seguire in diretta gli interventi che si svolgono in sala operatoria a Mondovì, grazie ad un collegamento videofonico con la sala riunioni della Onlus. Gli studenti possono anche fare domande e confrontarsi con i chirurghi al termine dell’intervento».
Che cosa rende un medico un bravo medico?
«Prima di tutto l’empatia, bisogna capire chi è il paziente, conquistare la sua fiducia e instaurare un rapporto di amicizia, diciamo così. Il paziente deve essere tranquillo e capire che è in buone mani. Poi bisogna spiegare tutto in modo semplice, senza usare termini che a una persona che non è medico possono risultare indecifrabili. Essere disponibili e capaci di ascoltare, questo fa del medico un bravo medico. Io poi ho una grande fortuna, faccio un mestiere che adoro. Non mi è mai pesato lavorare e questa è stata una delle cose più belle della mia vita».