Viola Scaglione «La danza crea spazi»

Sua mamma Loredana Furno ha fondato a Torino la compagnia Balletto Teatro. Suo padre Massimo ha creato il Teatro delle Dieci. Lei porta avanti l’eredità artistica

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«Non so cosa stai facendo ma funziona mol­to bene». Se lo dice la mamma potrebbe essere una benevola pacca sulla spalla, o una specie di quella cosa per cui si è belli a mamma nostra, comunque sia. Se però la mamma è Loredana Furno e la figlia Viola Scaglione, allora sì, ci puoi anche credere. La prima è parte di storia della danza italiana. Partita da To­rino e a Torino ritornata per fondare la sua compagnia, Bal­letto Teatro di Torino, dalla ci­fra personalissima, Furno ha prodotto spettacoli coraggiosi che accanto a Belle addormentate e rassicuranti Giselle, facevano ballare le donne raccontate da Guido Gozzano, per esempio, o le figure shakespeariane, tuttora repertorio di riferimento per coreografi e danzatori. Una disposizione a rischiare e a mettersi in gioco che Viola ha respirato fin da bambina e che ha fatto propria, dopo il fisiologico allontanamento alla ricerca di sé.
Viola, quando ha capito che la danza sarebbe stata la sua vita?
«Ho attraversato diverse fasi. Per lungo tempo mi sono sentita spettatrice della mia vita, non pienamente consapevole della situazione. Poi a ventidue anni mi sono trasferita a Madrid, da sola, dove ero soltanto Viola e non figlia di, e mi sono interrogata. Lì ho fatto pace con la mia storia, l’ho accettata, ho preso contatto con la mia parte più intima e ho capito che la danza era una scelta mia».
A proposito di figlia di, suo padre era Massimo Scaglione, un regista che ha molto segnato la cultura torinese, fondatore, tra l’altro, del Teatro delle Dieci.
«Infatti mi sto rendendo conto che ho molto assorbito anche da lui. Erano sue molte regie dei balletti di mia madre con cui collaborava spesso, sapeva indicarle i ruoli giusti. Molti suoi suggerimenti li ho capiti dopo la sua morte».
Cosa le diceva?
«“Viola, tu devi capire che hai un’industria e devi seguire i tuoi desideri”. Ha sempre creduto in me più di quanto non credessi io. Poche parole ma convinte. “Il nostro lavoro è anche fabbricare, costruire un indotto”. Ho capito dopo il sen­so di queste parole».
E lei l’indotto lo ha creato e continua ad alimentarlo con la sua compagnia.
«Siamo una famiglia di costruttori. Mia mamma non ha mai solo danzato ma ha costruito spazi e anche a me piace creare spazi e opportunità per altri artisti. Non sono egoriferita o, almeno, mi piace nutrire il mio ego in maniera sana».
Dal 2016 ha sostituito sua madre alla direzione del Btt. Co­sa in­tende Loredana Furno con quel “funziona molto bene”?
«Allude alla versatilità della compagnia e alla scelta di affidarci a coreografi diversi che chiedono all’interprete una flessibilità continua e la capacità di passare da una poetica all’altra. Una questione di spirito, non solo di tecnica. In questo senso siamo come dei free lance che però possono contare su una stabilità, un valore molto importante».
Oggi la danza sembra meno legata alla figura dell’étoile, del ballerino solista, a favore di un lavoro di squadra. È d’accordo?
«Io parlo spesso di direzione orizzontale, in cui c’è condivisione di idee e valori, c’è scambio e un costante allenamento all’accoglienza. Cerchiamo di fare della diversità un punto di forza e tutti i ruoli sono fondamentali».
Tutto rose e fiori?
«Non proprio. Siamo una compagnia stabile di sei persone e la convivenza è fatta di meraviglie e difficoltà. Certo è che quando si dirige si arriva a un punto in cui dall’orizzontalità si deve passare alla verticalità. Bisogna fare delle scelte».
Sul suo profilo facebook si legge “la direzione vale più della velocità”: cosa intende?
«Intendo che la creazione è una ricerca continua e non bisogna avere fretta. Mi interrogo spesso se si capisca, da fuori, che cosa sto facendo. Le mie scelte determinano la mia direzione, ma non importa quanto tempo impiegherò. Magari l’idea di partenza viene modificata in corso d’opera: si fanno incontri, ci sono punti di vista diversi e l’idea prende altre direzioni».
Le vostre recenti creazioni, “Al momento thanks for the dance”, docufilm sui 40 anni del Btt e “Umanudità”, ambientato nel Castello di Rivoli, sono anche legate al video. Nuove frontiere della danza?
«Il lockdown ci ha obbligato a reinventarci e cercare nuove possibilità, ma niente può sostituire la presenza del pubblico. La telecamera però permette di entrare nel dettaglio, in un’intimità che diversamente non sarebbe possibile».
Cos’è “Il corpo sussurrando”, vo­stro recente lavoro appena por­tato a Noto, in Sicilia, al Fe­stival Internazionale del Bal­letto?
«È un titolo contenitore che varia a seconda dei luoghi e del contesto, nostro bagaglio da ormai sette anni e raccoglie poetiche diverse, secondo la nuova linea della compagnia non più affidata a un progetto d’autore ma a coreografi diversi. Qui tre per un trittico».
Parliamo del corpo: è davvero finita l’era delle silfidi?
«Del corpo mi piace la naturalezza e la capacità di relazionarsi con gli altri. Può essere meraviglioso nella sua unicità, se non c’è ostentazione, moda, ma consapevolezza. In scena non ci sono solo corpi ma persone, interpreti».
Come si mantiene in forma?
«A parte l’allenamento, faccio meditazione, scoperta nel lockdown, yoga e gyrotonic».
La tentazione?
«La pizza, la tartare di tonno, i lamponi».
Cosa rappresenta Torino per lei?
«La disciplina che mi dà la libertà. Nella quadratura torinese delle vie trovo la mia libertà».

A cura di Alessandra Bernocco