«Sono alta quasi un metro e ottanta ma dentro mi sento come una fragile biondina di un metro e cinquanta».
Chissà se si sente davvero così fragile, Manuela Mandracchia, che già a vent’anni aveva il fisico e la tempra per fare Medea, Fedra, la regina Gertrude? «In verità il discorso è più vasto e complesso – dice l’attrice, una delle più quotate del nostro teatro di prosa, con incursioni nel cinema e nelle serie – e ha a che fare con lo stereotipo, il modo in cui noi donne veniamo ancora oggi raccontate, incasellate in ruoli precostituiti: la madre, la figlia, la manager, l’amante, la donna borghese. Io ho una fisicità che mi relega spesso in ruoli di algida borghese, un po’ antipatica, però faccio un mestiere dove il corpo non è che uno dei segni con cui mi esprimo. Né credo che la fragilità, per restare in tema, sia esclusiva delle cose piccole».
Quello dell’algida borghese è il ruolo che riveste in Petra, la serie Sky con Paola Cortellesi e Andrea Pennacchi.
«Lì sono una borghese super ricca, ma simpatica, che finisce per innamorarsi di un semplice poliziotto, ma di cuore, e se lo sposa. Una storia tenera».
In teatro invece ha interpretato personaggi meno inclini alla tenerezza, penso a Hedda Gabler, un classico di Henrik Ibsen, una donna che tutte le attrici vorrebbero interpretare.
«Lo auguro a tutte le colleghe. Hedda è un personaggio che capisci man mano, proprio mentre lo interpreti. È una valchiria ma frequentandola ti rendi conto che incarna la fragilità dell’essere umano ed è interessante che Ibsen l’abbia resa con una donna».
Allora con la valchiria fragile abbiamo scardinato lo stereotipo.
«E anche molti luoghi comuni difesi da certa vecchia critica ibseniana. Hedda è una tigre in un salotto, ma a sbagliare non è lei: è chi la costringe in un salotto».
Mi sembra però di capire che in teatro e nel cinema la questione stereotipi vada ben oltre la questione di genere.
«Certo, nel senso che è un discorso che riguarda le attrici, molto più degli attori, che invece sono prevalentemente letti per le loro storie e non attraverso “funzioni”. Noi rivendichiamo il fatto che ogni anima è speciale, indipendentemente dal sesso e anche dal ruolo. Non tutte le madri, per esempio, sono uguali. Quello che abbiamo cercato di fare come Miti Pretese è proprio sovvertire determinate convenzioni mettendoci alla prova con nuove corde e possibilità.»
Allora parliamo delle Miti Pretese, quattro attrici (lei, Alvia Reale, Sandra Toffolatti e Maria Angeles Torres) che hanno fondato un gruppo dove creare liberamente i loro spettacoli alla faccia degli stereotipi. Battagliere nonostante il nome?
«Il nome è mutuato da un annuncio sul Messaggero, datato 1951, in cui si invitavano “signorine giovani, intelligenti, volenterosissime, attiva conoscenza dattilografia, miti pretese” a un colloquio di lavoro che poi finì in tragedia a causa del crollo della scala dello stabile. Fatto che ispirò “Roma ore 11”, il libro inchiesta di Elio Petri dove si indagava la condizione femminile di allora, non molto diversa da quella di adesso. Di qui il nostro primo spettacolo, ispirato al film di De Santis».
Un lavoro che ha ottenuto un grande successo, a cui ne sono seguiti altri tra cui Troiane, scritto attingendo a Omero, Euripide, Seneca ma anche a Sartre, e “Festa di famiglia”, un originalissimo assemblaggio di testi vari di Pirandello, supervisionato da Andrea Camilleri. Il prossimo progetto?
«Ci sono tante idee ma per ora ognuna di noi è impegnata singolarmente. Ci incontriamo ogni tanto e buttiamo giù un po’ di proposte».
In questo momento è impegnata in un’importante produzione del Teatro Stabile di Torino, “Il crogiuolo” di Arthur Miller diretto da Filippo Dini, in scena al Teatro Carignano dal 4 ottobre al 23 ottobre. Anche qui a fare le spese di ignoranza e arroganza di potere sono le donne, perseguitate in una caccia alle streghe mai definitivamente archiviata. Ha senso secondo lei un confronto con la condizione delle donne in Iran e Afghanistan?
«Certo perché alla base c’è sempre quella forma di fanatismo strumentale che mira al controllo. Miller ha scritto questo testo in pieno maccartismo rievocando la caccia alle streghe di Salem nel XVII secolo, quando si condannavano per impiccagione gli scomodi, accusati di stregoneria, ma a lui è servita per raccontare il rapporto dell’America e dell’occidente con il comunismo. Ispirandosi a un fatto storico che apparentemente non ci riguarda si denuncia il fanatismo e certe dinamiche sempre uguali che si vanno a scaricare sulle donne. Ma dietro a qualunque forma di fanatismo ci sono sempre interessi sotterranei. E benché noi non viviamo in uno stato teocratico stiamo assistendo a un evidente ritorno indietro, verso diritti negati, soprattutto alle donne. Quando l’umanità viene costretta da regole esterne, imposte per interesse di pochi, si diventa fanatici e si usa la religione come strumento di controllo».
Quanto potere ha la cultura in questo meccanismo?
«Eh, le dico solo che qui c’è un personaggio che va dai sacerdoti a lamentare che la moglie è strana perché legge. La cultura: quanto di più scandaloso ci sia».
Oppure rivoluzionario.
«Appunto».
Alessandra Bernocco