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Nel nome del padre

Quarant’anni dopo il papà, Svante Paabo vince il Nobel per la medicina. Non per scoperte che migliorano il nostro futuro, ma parlandoci del passato attraverso il dna degli ominidi. Tra bermuda sgargianti e saune sul posto di lavoro

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Nel nome del padre. Quarant’anni dopo Sune Bergstrom, è il figlio Svante ad aggiudicarsi il Nobel per la medicina. Sì, certo, il cognome non coincide, ma Paabo, semplicemente, è quello di mamma Karin, affermata chimica.

Influenza familiare inevitabile, tuttavia contaminata da una passione innata per la storia: Svante studia egittologia e storia della scienza, oltre che biologia e medicina all’università di Uppsala, e l’interesse intrecciato che ne scandisce la carriera si riflette adesso nell’onorificenza in apparenza anomala: perché noi profani, abituati a veder premiati ricercatori che spendono la vita per migliorare la nostra, regalando al progresso informazioni preziose o nuovi farmaci, un poco siamo rimasti stupiti leggendo le motivazioni: «Per le sue scoperte sul genoma degli ominidi e sull’evoluzione umana».

D’altro canto, il percorso scientifico culminato nella fondazione e direzione del dipartimento di genetica del Max Planck Institute di Lipsia inizia con lo studio dei dna di mummie egizie e di Otzi, l’uomo preistorico restituito nel 1991 da un ghiacciaio, passando per il completamento della versione del genoma di un Neanderthal e dall’ipotesi di una sua “parentela” con gli eurasiatici: dietro studi scrupolosi e ricostruzioni tutt’altro che semplici, si annidano le domande che tanti di noi si pongono e a cui Paabo risponde in laboratorio: chi siamo e da dove veniamo? Arrivando alla conclusione che una coesistenza lunga migliaia di anni ha trasmesso geni degli ominidi all’uomo che oggi conosciamo. E un ominide in precedenza sconosciuto, Danisova, l’ha pure scoperto.
Giusto, quindi, che Paabo, pioniere d’un nuovo campo di ricerca, la paleogenomica, venga popolarmente riconosciuto come un archeologo dell’evoluzione umana.

Classe 1955, compensa il rigore professionale con la fantasia nel look: nel laboratorio di antropologia evoluzionistica s’aggira spesso in bermuda e camicie coloratissime. È esigente, ma non impone alcun metodo: chiede i risultati e non bada alle ore di lavoro. E adora ritagliare momenti di relax per i dipendenti, come dimostra la sauna attigua agli uffici. Grande festa nel Max Planck Institute che non ha ammesso eccezione al rito del bagno nel laghetto; tocca farlo ai chi consegue il dottorato, figurarsi se poteva essere risparmiato a un Nobel, benché assegnato al capo. Tra i suoi collaboratori anche un italiano; Cesare de Filippo da Mattinata, Foggia. Altro legame con l’Itala, la tessera di socio straniero dell’Accademia dei Lincei.

Quando lo hanno preavvertito della vittoria, lo scienziato non ha nascosto l’emozione e ha intenerito i membri della fondazione incaricati d’informarlo chiedendo il permesso di poter anticipare la notizia alla moglie. Lei è una genetista americana ed ha sancito una svolta nella vita privata di Paabo che si definisce bisessuale: era convinto d’essere gay finché non l’ha conosciuta. Festa in famiglia, festa nella comunità scientifica tedesca, festa in Svezia dove è nato, in Svizzera e America dove ha approfondito gli studi e in Giappone dove insegna: e chi del fatto che ci parli al passato non si stupisce innocentemente come noi profani ma storce il naso con scientifico snobismo, va ricordato che anche le sue scoperte offrono basi di ricerca importanti per le cure di domani.