«Nel mio Faust un diavolo buffo che non fa paura»

Giampiero Ingrassia in scena pochi giorni dopo una caduta nelle prove. «Mefistofele ha l’accento veneto. Non sono tormentato dagli anni, ma invecchiare bene è un privilegio»

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The show must go on. Anche se il medico ti ha ordinato dieci giorni di riposo assoluto. Giampiero Ingrassia è andato in scena dopo una caduta durante le prove del “Doctor Faust”, alla Sala Umberto di Roma. Giusto due giorni di posticipo e via il collare e tutto l’armamentario di protezione che ci aveva mostrato attraverso il suo profilo Instagram, quasi a scusarsi per l’incidente. Perché il teatro non può attendere e il pubblico freme.
Grazie, come sta?
«Sono ancora un po’ acciaccato ma va meglio».
In scena non si risparmia e d’altra parte il doppio ruolo di Faust e Mefistofele non glielo consentirebbe.
«L’idea di affidarmi il doppio ruolo è stata di Stefano Reali, autore e regista. Come quella di dare alla commedia una connotazione più romantica, che prevede il lieto fine. Lo spettacolo è chiaramente ispirato dal “Faust” di Marlowe e di Goethe ma vuole dare al protagonista una nuova possibilità».
Il suo Mefistofele, dall’accento veneto, è quasi buffo. Un’intenzione?
«Sì, certamente, con quella vocina è proprio un povero diavolo che non fa paura a nessuno, preso solo dalla volontà di conquistare le anime per vivere in eterno. Faust fa più paura, così convinto di accaparrarsi la conoscenza del male. Anche l’accento veneto è un suggerimento registico, io avevo proposto il siciliano ma poi si sarebbe confuso con il calabrese del servitore, interpretato da Mimmo Ruggiero».
Anche lei, come Faust, è tormentato all’idea di invecchiare?
«No, tormentato no. Il passare degli anni è una condizione biologica, mica una colpa. Io ho sessant’anni e pur non conducendo una vita sanissima, mi applico in piccole cose che rallentano il processo. Certo che se mi fermo a riflettere mi dico “azz”, sono passati quarant’anni. E invece io ricordo benissimo i miei diciotto. Il punto è che non ce ne accorgiamo tanto su di noi ma sugli altri, quando vediamo dopo tanto tempo i nostri coetanei cambiati. Ma più che la vecchiaia mi fa paura la malattia e la sofferenza. Invecchiare bene è un gran privilegio».
La sua trasgressione?
«Da giovane non mi sono fatto mancare nulla, ho fatto di tutto ma non vivevo quel che facevo come trasgressione. Era la mia normalità. Oggi la mia massima trasgressione è stare sdraiato sul divano a guardare un film insieme alla mia compagna e a mia figlia e alle discoteche preferisco le cene con gli amici».
Sua figlia ormai è all’università: com’è come padre?
«Ho le stesse ansie che avevano i miei genitori quando uscivo di sera e ora li capisco. Quando rientravo tardi trovavo mia madre affacciata al balcone, ora sono io che mi preoccupo se mia figlia non risponde al cellulare. Sarà che invecchiare significa anche dimenticare di essere stati giovani».
A proposito di genitori, vogliamo ricordare il centenario della nascita di suo papà, Ciccio Ingrassia, celebrata il 5 ottobre scorso?
«Sono stati realizzati diversi eventi per il centenario, tra cui un murale a cura dell’associazione Capopanama, nel quartiere Capo di Palermo, proprio nella via della sua casa natale. Il 26 ottobre invece Poste italiane emetterà un francobollo dedicato a Franco e Ciccio. Il 9 dicembre saranno trent’anni dalla morte di Franco Franchi e il francobollo sarà un modo di ricordare entrambe le ricorrenze».
Una coppia storica della commedia italiana. Per lei un padre e una sorta di zio, im­magino. Ci regala un aneddoto?
«Un viaggio in treno Roma-Milano, sa quei treni di una volta, a compartimenti da sei. Loro andavano a girare una pubblicità, quella del rasoio Bic, e io, che avevo circa diciott’anni, avevo voluto accompagnarli. Quando eravamo noi tre soli, parlavano di tutto, politica, donne, teatro, facevamo le parole crociate. Poi ogni tanto entrava qualcuno e li riconosceva. Loro restavano impassibili e a me veniva da ridere. Qualcuno ha pensato che stessero girando un film».
La scelta di fare l’attore è maturata in famiglia in modo istintivo?
«No, è stata una scelta ponderata. Dopo il liceo mi sono iscritto a giurisprudenza ma poi il desiderio di fare spettacolo mi ha sopraffatto. Dopo avere assistito con un amico a uno spettacolo di Gigi Proietti andammo in camerino a chiedergli come fare per iscriverci alla sua scuola di cui avevamo sentito parlare».
E poi tutto come da copione?
«Provino, scuola, primi ingaggi».
Con Proietti ha lavorato in tante produzioni, ricordiamone qualcuna.
«Mi ha voluto in “Full Monty” e appena diplomato nel “Cyrano de Bergerac”. Lavorare con lui è stata una scuola permanente, eravamo affamati di tutto quel che diceva e durante i suoi monologhi restavamo in quinta, tutte le sere una lezione».
Ha lavorato anche con Giorgio Albertazzi, che ricordo conserva?
«Sono stato Oberon ne “Il sogno di una notte di mezza estate” dove lui faceva Puck. Un’esperienza bellissima. Anche con Giorgio si apprendeva tantissimo ma soprattutto ci dilettava a cena, dopo lo spettacolo, raccontando di tutto e dando a tutta la compagnia suggerimenti per una vita sana».
Come attore ha partecipato a diversi musical e canta molto bene: che rapporto ha con la musica?
«È la colonna sonora della mia vita. Rock, classica, jazz, italiana. Però non sono un cantante, sono un attore che sa anche cantare. E fin da piccolo ero attento, mi documentavo, leggevo riviste musicali. Ascoltavo i big da esordiente, Pino Daniele e Franco Battiato, per esempio, quando non erano ancora così famosi».
Il suo legame con il Piemonte?
«Adoro Torino, ma anche Asti dove sono stato spesso. Torino è magica, l’ho vissuta in tutte le stagioni, con la neve, con il sole, per le tournée e il museo del cinema. Dagli anni ’90 l’ho vista trasformata in meglio, ora è davvero una città mitteleuropea».

A cura di Alessandra Bernocco