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«Se ad insegnare fossero i ragazzi ci rimanderebbero»

Il professor Enrico Galiano a Cuneo: «Loro più lucidi, noi arrabbiati. Ma in pandemia erano sempre gli ultimi»

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Enrico Galiano è il professore più fa­mo­so d’Italia. I so­cial per lui sono una piattaforma utile per raccontare la scuola di oggi e gli studenti e le studentesse del nuovo millennio. È nato a Por­denone nel 1977. Inse­gna in una scuola di periferia, ha creato la webserie “Cose da prof”, che ha superato i venti milioni di visualizzazioni su Face­book. Sarà a Cuneo a “scrittorincittà” per incontrare i ragazzi e parlare di felicità. Un tema che affronta nel suo ultimo libro “Scuola di felicità per eterni ripetenti”.

Che ruolo hanno i professori nella vita dei ragazzi?
«I professori hanno un potere immenso: possono elevare un ragazzo, tirargli fuori le sue doti migliori, ma anche la parte più oscura: il suo odio, la sua rabbia. Un pessimo in­segnante può provocare dan­ni gravissimi: una parola sbagliata, una parola di sfiducia possono davvero far perdere l’autostima in uno studente; mentre una parola d’affetto può cambiare le sorti in me­glio. Non è facile fare l’insegnante, soprattutto nel­la fascia d’età che va dalla pri­ma media al biennio delle su­periori e dire la cosa sbagliata è un attimo, capita a tutti. Ma è importante che i docenti abbiano la consapevolezza del loro potere».
Dai suoi romanzi emerge che questi ragazzi, seppur in un’età difficile sono comunque migliori di noi adulti: è vero?
«Sì, la trovo una cosa evidente. C’è un gap immenso, soprattutto sui temi centrali: ambiente, guerra, parità di genere. Su questi tre temi i ragazzi ci danno tanto distacco, anche nel rispetto degli altri e delle altrui opinioni. Noi adulti invece siamo molto arrabbiati, frustrati. Ecco dovremmo sederci noi sui banchi di scuola e lasciare in cattedra loro su queste materie e credo che noi saremmo rimandati».

Una generazione colpita dalla pandemia.
«Diciamo che la pandemia ha portato alla luce tanti problemi che erano già lì, solo che non li vedevamo, non ci facevamo tanto caso. I ragazzi hanno sofferto tanto. Togliergli i contatti umani è stato uno sbaglio e tanti hanno incominciato a manifestare insofferenza senza verbalizzarla, ma con i modi in cui lo sanno fare gli adolescenti: cioè con comportamenti a rischio, come disturbi alimentari, abuso di sostanze già alle medie, abbandono scolastico, isolamento sociale. Probabil­mente si sono resi conto di quanto poco contano nella nostra società. Per tutto il periodo della pandemia, le decisioni sulla scuola, se riaprirla o no, sono sempre state prese per ultime (prima venivano i centri commerciali, i bar, l’economia…). Da qui il messaggio: voi siete gli ultimi».

C’è qualcosa che potremmo dire ai ragazzi per aiutarli ad affrontare questa situazione complicata?

«Sinceramente parlando, per ora i giovani sono quelli che la stanno affrontando meglio, con più senso di responsabilità e meno cedimenti. Forse dovremmo starcene un po’ zitti noi sedicenti adulti e prendere esempio da molti di loro».

Oggi per avvicinare i ragazzi alla lettura bisogna proporre storie incalzanti che parlino la loro lingua. Ma i classici?
«I classici sono un elemento insostituibile, ma devono essere considerati una sorta di traguardo. Suggerisco di iniziare dalle storie più semplici, scegliendo letture adatte all’età e al tipo di linguaggio che devono percepire vicino a loro. Bisogna farli innamorare della lettura lentamente e, se si segue il percorso giusto, potremo suggerire i classici nel momento più adatto, sia attraverso la lettura individuale sia attraverso la lettura ad alta voce a scuola per stimolare l’interesse. E comunque importante che la scuola e la famiglia propongano i classici, perché chi non li legge durante l’adolescenza probabilmente non lo farà mai. Ed è un grande peccato. Mattia Pascal e Madame Bovary hanno tante cose in comune con gli adolescenti di oggi, ma soprattutto sono romanzi che contengono parole bellissime. Se serve proporre i classici con le illustrazioni va bene lo stesso, l’importante è provare tutti i metodi possibili, a seconda della scuola e dello studente».

Ci dice almeno tre qualità che deve avere un buon insegnante?
«Ne dico una, la più importante: che sì la competenza, sì lo studio, ma insegnare è prima di tutto una faccenda che ha a che fare con l’amore. Per quello che si insegna, e per quelli a cui lo si insegna».

Le caratteristiche fondamentali, invece, di un buon insegnante?
«Competenza, a patto che non sfoci nella pedanteria; empatia, ma non assistenzialismo; vocazione, ma non farsi missionari».

Il momento più difficile nella sua carriera?

«Ce ne sono tutti i giorni, purtroppo. Parlo di alunni abbandonati a sé stessi, senza una famiglia a supporto. Alla fine è sempre da cose come questa che sfociano le peggiori storie di abbandono scolastico».

Uno dei ricordi più belli?
«La cosa che amo di più è quando ti scrivono dopo anni per dirti che si ricordano di una tua lezione, o di qualcosa che hai detto loro, e quel qualcosa li ha spinti a decisioni importanti. Succede una volta ogni cinque anni, ma quando succede sono lacrime assicurate».