Una libbra di carne è quello che chiede l’ebreo al cristiano, per estinguere il debito. E una libbra di carne è quello che il giudice gli accorda nel processo farsa dell’ultimo atto del “Mercante di Venezia”. Un libbra di carne ma. Ma a condizione di non versare una goccia di sangue. Una delle più celebri scene shakespeariane. Da una parte la legge, da perseguire a qualsiasi costo, dall’altra la giustizia, che reclama clemenza. Ma è proprio così? Ne parliamo con Franco Branciaroli, interprete di Shylock, l’ebreo, nell’allestimento diretto da Paolo Valerio.
Secondo lei ha senso inquadrare il rapporto tra Shylock e Antonio, l’ebreo e il cristiano, all’interno di quello inveterato e mai risolto tra legge e giustizia?
«Ma sì ha senso perché la giustizia non funziona mai».
Ah ecco. Quindi lei parteggia per Shylock?
«Lei conosce una banca che non chieda interessi? L’aspetto più interessante di questa opera è quello finanziario, il confronto tra un nuovo modello di finanza e uno vecchio, in cui i prestiti si fanno ancora senza interesse. Qui invece entra in campo la modernità, il capitalismo, il mercato. Agli ebrei allora era impedito di fare qualsiasi cosa: l’unica attività possibile era prestare denaro. L’ebreo era costretto a fare l’ebreo e diventava un banchiere, non potendo fare altro».
Ma Shylock è disgustoso.
«Sì lo è ma perché è perseguitato e massacrato da chi non è in grado di restituire il dovuto. Anche i tedeschi invidiavano gli ebrei perché l’ebraismo era la punta di diamante della cultura. Ma eliminandoli hanno eliminato i veri tedeschi, la parte migliore della cultura tedesca».
In Shakespeare è forte il conflitto tra religioni.
«Il mercante è l’opera in cui ha ceduto all’andazzo generale, è un testo antisemita, soprattutto nella volontà di conversione al cristianesimo. Per capire la violenza di questo testo è bene parteggiare per Antonio, considerando che per i Gesuiti nel Seicento, la conversione era la salvezza».
Perché ha voluto interpretare Shylock?
«Io? Ma lei crede che l’attore possa fare quello che vuole?».
Branciaroli forse sì.
«Ma no, io non decido niente. E poi non ho il mito dei ruoli e riesco a godere di questa malattia con qualunque ruolo. L’importante è che sia scritto bene. E Shylock lo è. È un personaggio scritto in maniera realistica, che la traduzione riesce a restituire. Perché il problema di Shakespeare è la traduzione. Dei grandi drammi perdiamo tutto. Shakespeare è un pianeta irraggiungibile. Beckett diceva che “Re Lear” non si poteva fare nemmeno in inglese».
Invece lei lo fece una trentina d’anni fa, poco più che quarantenne.
«Un gioco. Un’idea nata al ristorante. Un attore ordina “one beer” e di seguito è arrivato Lear Lear».
Allora se Shakespeare è difficile e la traduzione è il vero problema si può sempre ripiegare sulla drammaturgia italiana contemporanea.
«Perché, esiste una drammaturgia italiana contemporanea?».
Guardi che “Dipartita finale” l’ha scritto lei, ispirato da Beckett.
«Un gioco: legittimo ma sempre un gioco. Io non mi considero un gran drammaturgo sennò non farei l’attore. Due grandezze non possono coesistere. Shakespeare non era un grande attore, e nemmeno Moliere. Lei conosce un grande compositore che sia anche un gran strumentista?».
Chi è un gran drammaturgo?
«Un bravo organizzatore di materiale preesistente. Shakespeare non ha inventato nulla, nemmeno Amleto».
Sicuramente lo era Giovanni Testori, un inventore di linguaggio, come Luca Ronconi ne fu scardinatore: lei ha lavorato con entrambi.
«Testori parlava di attori di carne e scene di cartone: una frecciata a Ronconi per cui era quasi il contrario. Per Ronconi il teatro è una macchina e l’attore è una componente come un’altra. Se invece non ci fossi stato io a fare “In exitu” di Testori, non lo avrebbe fatto nessuno. Per Testori l’attore è tutto e sia l’attore sia il drammaturgo possono fare a meno del regista. Che invece da solo non può fare niente».
“In exitu” venne rappresentato alla stazione centrale di Milano quando di spettacoli site specific non si parlava nemmeno.
«Più che site specific, quello fu l’unico spazio che riuscimmo a rimediare. Ce lo diedero le ferrovie dello stato perché il Piccolo, che mi odiava, negò il teatro al più grande drammaturgo vivente, il più grande dopo Pirandello. Ce lo concesse più tardi, per altri spettacoli».
Invece con Ronconi fece, tra l’altro, una celebre “Medea” en travesti.
«Non en travesti. “Medea” non è una donna: è un mito, una Dea. Questo, Ronconi lo ha capito molto bene. La sua grandezza era di essere un apprezzato studioso e di avere visto e capito cose che altri non avevano compreso. Quello che mette in scena Euripide è il passaggio da una civiltà matriarcale a una patriarcale. Medea uccide i figli per il dolore causato da questo passaggio. I figli sono il sacrificio che chiedono gli Dei per avere tradito la sua religione. La donna è solo una maschera che Medea usa per portare il coro delle donne dalla sua parte».
D’accordo, ma con Giocasta come la mettiamo? Nel suo “Edipo” oltre a Edipo e Tiresia ha interpretato pure Giocasta, con tanto di guepiere.
«Un’idea rubata a Ronconi e basata sul saggio di René Girard, La violenza e il sacro in cui Girard sostiene che non ci sia differenza tra i tre: sono tre mostri e quello che conta è quello che hanno in comune. E quando non c’è più differenza scatta il massacro. Quando una società perde le differenze ci si uccide».
Da che ho memoria si parla di crisi del teatro: che ne pensa?
«Sono sbagliate le leggi: se ogni teatro deve produrre il livello qualitativo si abbassa e diventa amatoriale. Eppure i teatri sono pieni ma il Ministero sostiene il cinema, anche se le sale sono vuote».
Ce l’ha ancora con il cinema “napoletano”?
«Adesso ci hanno messo dentro anche la Sicilia. Alla faccia del cinema internazionale! Ma si immagina certi film in Nuova Zelanda?».