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«Il virtuale? Meglio puntare sulla vita reale»

L’attrice Marina Massironi a tutto campo: «Che gag con Aldo, Giovanni e Giacomo»

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Lorella con gli uomini non ha alle spalle una storia di successi, pe­rò ora annuncia al­l’a­mica di una vita di avere trovato marito. Unica particolarità, il ma­rito è invisibile. Non è che non si veda, semplicemente: è che è proprio invisibile. Esiste e consiste nella sua invisibilità. Lorella è Marina Massironi e l’amica che di nome fa Fiamma è Maria Ame­lia Monti. Le due attrici, amiche sulla scena e nella vita, sono in tournée per il secondo anno con una commedia di Edoardo Erba, “Il marito invisibile”, appunto, esilarante al punto giusto, scritta nel se­condo lockdown e degna di questi tempi bui, rischiarati solo dalla luce di una videochiamata.

Due amiche si incontrano in vi­deochat dopo anni di lontananza e si riavvicinano. Pro­di­gi del virtuale?
«Una riflessione comune sulla direzione delle nostre relazioni. D’altra parte, durante la pandemia, se non ci fossero state le videochiamate, ci sa­remmo sentiti ancora più isolati. Così anche chi non è mai stato incline alle relazioni virtuali ha imparato. Io ho scaricato a mia madre, ottantenne, l’app per le videochiamate».

Non crede che di questo pas­so la nostra vita possa prendere una brutta piega?
«Credo che affidare completamente i nostri rapporti alla realtà virtuale sia pericoloso e che possa creare abitudini sbagliate e soprattutto disabitudini, come allontanarci dalla vita reale, dalla condivisione».

Questa commedia affronta la questione in modo lieve e di­vertente, ma il tema è tutt’altro che leggero.
«Affronta il tema declinandolo attraverso l’attrazione verso l’invisibile. Una donna crede di avere trovato l’uomo perfetto, peccato però che sia invisibile».

Ma per lei non è un problema.
«Infatti. Da lei non è vissuto come tale. Non lo è perché ha tutto quello che lei cerca in un uomo».

Forse è lei stessa il problema?

«Lei viene tacciata come pazza dall’amica ma poi l’attrazione per l’invisibile si rivela contagiosa».

E siamo completamente dentro la questione: siamo tutti attratti dall’invisibile. È qui che si vuole arrivare?
«Di questo spettacolo è stata detta una cosa giusta: parte come sitcom, procede come thriller e lascia una vena di malinconia, un pensiero commosso, una ri­flessione interiore. Attraverso l’attrazione per l’invisibile ci sa­rà un cambiamento».

Positivo?

«Il testo invita a riflettere ma non dà giudizi. Sono le storie che preferisco. E il pubblico si riconosce anche nel marito di Fiamma, visibile, ma sostanzialmente più invisibile di quello dell’altra. Gli spettatori leggono quello che vogliono: chi la storia dal punto di vista del matrimonio, chi l’aspetto surreale, chi la paura di perdersi, il desiderio e insieme la paura di essere invisibili».

La sua frequentazione con la drammaturgia italiana contemporanea contempla uno spettacolo scritto da Cristina Comencini, non proprio una con­sumata autrice di teatro ma che con questo testo ebbe molto successo, “Due partite”, che vedeva in scena quattro attrici. Che ricordo conserva?

«Un’esperienza molto bella. Ero in scena con Margherita Buy, Isabella Ferrari, Valeria Milillo e interpretavamo in due atti il doppio ruolo di madri e di figlie. An­che se Cristina non scrive spesso per il teatro, questo è un bell’e­sempio di drammaturgia italiana contemporanea».

C’è chi ne lamenta la crisi e la scarsità di ruoli femminili. È d’accordo?

«Non sono in grado di dare giudizi. Gli autori ci sono».

Il suo volto è anche molto legato al trio Aldo, Giovanni e Giacomo, con cui ha girato tre film e ha interpretato alcuni spettacoli. Mi racconta un aneddoto dietro le quinte?
«Un periodo molto divertente, faticoso ma libero, le tournée erano inenarrabili. Ero l’unica donna con loro tre, più l’amministratore di compagnia. Ri­cor­do i viaggi in Volvo in cui si litigava per tutto: chi voleva ascoltare la partita, chi la musica».

Invece con Serena Dandini di donne ce n’erano eccome. Co­m’è cambiata la tv dai tempi de “L’ottavo nano”?

«In vent’anni è proprio cambiata la formula. Ci sono meno soldi e quindi meno tempo per provare, meno occasioni di confronto. Sono i nostri tempi così e la tv è solo un riflesso. La velocità dei social è un sintomo. Io sono più analogica. Allora i programmi erano costruiti, provati e riprovati. C’era una drammaturgia a monte e la collaborazione tra colleghi era costante. Era così anche a “Mai dire Gol”: si facevano riunioni infinite dove si tirava dentro di tutto e se a qualcuno veniva un’idea, la si condivideva».

Parliamo di quel cinema che l’ha ampiamente premiata con “Pa­ne e tulipani”, David di Dona­tello e Nastro d’Argento.
«Un film fortunatissimo, frutto di contributi e concomitanze virtuose. Silvio Soldini in stato di grazia, il cast, Venezia, una città così magica che ha fatto sì che si lavorasse con un’energia speciale».

Adesso è diverso anche il cinema?
«Succede di arrivare sul set e di sentirti dire: “ecco, questo è tuo marito” e tu che non lo hai mai visto prima devi girare la scena».

Quando ha capito di voler fare l’attrice?

«Ho avuto una folgorazione a cinq­ue anni vedendo una versione amatoriale di “Anna dei miracoli”, poi la consapevolezza è ar­rivata più tardi, con la scuola di Busto Arsizio e l’incontro con De­lia Cajelli, la regista che, fino al 2015, anno della sua scomparsa, ha diretto il Teatro Sociale».

Una maestra?

«Sì, insieme a Ludwik Flaszen, un pedagogo importante con cui ho studiato in diversi laboratori e che ricordo con affetto e gratitudine».

È stata anche diretta da Dario Fo in “Sottopaga non si pa­ga”, cosa le ha insegnato?

«Riusciva a essere un grande maestro e un bambino contemporaneamente. Era molto stimolante perché nella sua drammaturgia veicolava contenuti seri, urgenti con lo spirito, la curiosità e il desiderio infantile di giocare. Era un artista a 360 gradi: le scenografie erano sue, dipinte di sua mano. I suoi giovani aiutanti lo dovevano tirare giù dal palcoscenico di forza ed erano più stanchi di lui. Un folletto nato per il teatro. Che in Italia non ha avuto il riconoscimento che meritava».

Articolo a cura di Alessandra Bernocco

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