Mangia e studia. Glielo disse sua zia Ave la prima volta che si incontrarono a Bologna, attorno alla tavola di uno dei ristoranti più rinomati. Aveva dodici anni quando il papà Arnaldo, che lei chiamava babbo o direttamente Arnaldo, l’aveva portata a conoscere la celebre attrice, amatissima dal pubblico anche per la sua rubrica di cucina in tv “A tavola alle sette”, pioniera di una tendenza che avrebbe preso piede come ben sappiamo.
Ave è Ave Ninchi, Arnaldo è Arnaldo Ninchi, figlio di Annibale e nipote di Carlo, lei è Arianna: Ninchi, come la grande famiglia di attori dalla quale discende. Un destino scritto nel nome, una vocazione esercitata dalle tournée infinite dei tempi d’oro del teatro, quando i figli d’arte viaggiavano al seguito dei genitori, insieme a bauli e scenografie.
Sbaglio?
«Sì. Mai fatto tournée con i miei genitori, né con Arnaldo né con mia madre, Rosa Maria Manenti. Sono stata allevata dai miei nonni materni, in un paese di campagna in provincia di Rimini, e i miei genitori li vedevo al compleanno e a Natale».
Ci sono risentimenti?
«Ma no! Una scelta ponderata. I miei nonni sono stati bravi a rispettare i ruoli e anche la gente del paese non mi ha mai fatto pesare l’assenza dei genitori. Certo il senso di famiglia mi è mancato un po’ e oggi considero famiglia il mio ambiente di elezione».
Però il rapporto con i genitori lo ha ampiamente recuperato.
«Certo, con Arnaldo ho persino lavorato, ho fatto l’ancella in Agamennone, giovanissima. La mia prima lunga tournée. Però non mi sono mai sentita figlia d’arte, ma parte di una compagnia».
Quando ha deciso di seguire le orme di famiglia?
«Ero all’Università. Frequentavo il Dams a Bologna e vivevo sopra un cinema d’essai. Pensavo al cinema, ma ho sempre amato leggere ad alta voce».
Cosa le diceva suo padre?
«Trova la tua strada. È un vizio di famiglia. Ognuno ha sempre cercato la sua indipendenza e l’idea di doversi meritare le cose è sempre stata alla base di qualunque scelta. Le dico solo che nonno Annibale, che insegnava recitazione in versi all’Accademia Silvio d’Amico, bocciò Arnaldo al provino di ammissione. Si ripresentò l’anno successivo e venne ammesso».
Menomale. E a proposito di vizio di famiglia, si intitolava così la rassegna dedicata alla dinastia Ninchi, curata da lei stessa nel 2017 al cinema Trevi di Roma.
«Sono molto orgogliosa di questa rassegna, mi piaceva l’idea di farli stare tutti insieme e ha preso il via con una lettera ad Arnaldo».
Che diceva…
«Caro babbo, non te l’aspettavi, eh? E invece eccoci qua, al Trevi, per la rassegna “I Ninchi e il cinema: un vizio di famiglia”. È da quando sei partito che mi frulla in testa quest’idea: riunire tutti i Ninchi in un unico film. Certo, da sola non ce l’avrei mai fatta. Ma Gianfranco Pannone ci ha creduto fin da subito e mi ha portato in Cineteca Nazionale, dove vi hanno scovato dai sotterranei uno per uno!».
Grazie. Ora vogliamo parlare di sua mamma? Magari in veste di drammaturga?
«Certo. Arnaldo l’ha sempre esortata a scrivere. Per me ha scritto “La forchetta a sinistra!”, un monologo molto divertente che racconta di una signora della Roma bene, regina del radical chic, sposata con un politico altrettanto radical che dalla finestra del suo buen retiro in Maremma vede un uomo nero in giardino».
E con lui si consumerà il tradimento?
«Non proprio. È radical chic fino alla fine. E tra i due atti della commedia corrono vent’anni».
Qual è il suo autore preferito?
«Amo Shakespeare, ho fatto la terza strega nel Macbeth, Gertrude, Donna Capuleti, Miranda e Regan nel Re Lear, diretta da Antonio Calenda, con Roberto Herlitzka, il mio attore preferito, che ha orientato lo spettacolo verso l’essenzialità».
Però è molto attenta alla drammaturgia contemporanea. Penso a “Musa e getta”, il volume edito da Ponte delle Grazie curato insieme a Silvia Siravo, sua collega, in cui avete commissionato a sedici autrici altrettante storie di donne-muse da interpretare a teatro.
«Le ho amate tutte. Sono appena stata a Genova con “Amanda Lear”, il testo di Maria Grazia Calandrone».
Un monologo?
«No, l’unico dialogo dei sedici. Gli altri sono tutti monologhi anche se in scena siamo sempre in due perché protagonista è la relazione, si sente la voce dell’altro ed è importante la doppia presenza. Qui ero in scena con Irene Mori. Ero sola soltanto in Nadia Krupskaja, “Il testamento” di Ritanna Armeni, diretta da Consuelo Barilari».
Lei e Ritanna Armeni: una bella staffetta generazionale.
«Ci siamo amate subito. Per me è come un’altra madre».
Le donne tornano protagoniste, purtroppo come vittime, nel progetto di Betta Cianchini diretto da Alessandro Machia, “Storia di donne morte ammazzate”, dove lei ha interpretato La sgambatura.
«La storia di una donna di provincia che si sposta a Roma, sposa un ricco uomo ma…».
Ma?
«L’estetista le consiglia una sgambatura più audace del solito e la favola finisce».
Sembra un girone infernale quello del femminicidio.
«Con Silvia Siravo abbiamo seguito un progetto fotografico per le scuole sulla violenza femminile. Mi spaventa e mi fa riflettere la reazione di molti ragazzi, maschi intendo, che spostano la questione sulla violenza delle donne sugli uomini, dicendo che si parla sempre di una parte e non dell’altra. Allora mi domando: non è che ci stiamo ghettizzando?».
Mi faccia capire: quando raccontiamo di donne ammazzate dobbiamo pure stare attente a non ferirli?
«Eh… Il rischio è che alcuni uomini alzino le barricate. Bisogna lavorare sull’ascolto».
Il personaggio che desidererebbe interpretare?
«Più che un personaggio sogno di portare in scena la vita di Ave. La carriera è nota ma la vita! Ha avuto una vita incredibile. Ha conosciuto alti e bassi, ricchezza e povertà e quando era già famosa ha aiutato tanti giovani attori, anche materialmente. Conosceva bene le difficoltà di questo lavoro. Ho in mente un’operazione corale con tante attrici per fare famiglia e per rendere l’idea della ricchezza, complessità e varietà della sua vita».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco