«Uno dei ruoli più grandi mai scritti per un mezzosoprano». È entusiasta Giulia Diomede quando racconta della sua Azucena, la zingara strega de “Il trovatore” di Giuseppe Verdi che aprirà il 20 gennaio la stagione 2023 del Teatro Coccia di Novara, a 170 anni esatti dalla prima del 1853 al Teatro Apollo di Roma. «Un’opera della iper-tradizione italiana», che per lei arriva dopo un bel rodaggio nel repertorio contemporaneo e un diploma di perfezionamento presso l’Accademia dei Mestieri dello stesso Teatro.
Chi è dunque Azucena?
«Una figura immensa, tra le più affascinanti di tutta la storia dell’opera non solo italiana, ma mondiale. Vittima del pregiudizio, in quanto lei stessa figlia di zingara accusata di stregoneria e condannata al rogo».
Opera tragica, “Il trovatore”, tratta dal dramma omonimo dello spagnolo Antonio García Gutiérrez, in cui non manca proprio nulla: infanticidio, errori fatali, sospetti, scambi di persona, vendette, amori dannati.
«E pensi che “azucena” in spagnolo è il nome di un fiore bianco, proprio il contrario della cupezza…».
E allora come si fa a rendere il biancore, la delicatezza, l’innocenza di questa donna che in realtà getta un neonato in una pira?
«Cercando di capirla. Lei è sostanzialmente una vittima e, come tale, mostra il suo lato oscuro ma arriva a compiere quell’atto estremo perché non ha altra possibilità».
Davvero?
«Non vede e non può vedere altra possibilità perché la società non glielo consente. La società la condanna a priori. Verdi è uomo di fede e a questa donna non lascia redenzione. E, tuttavia, mentre la condanna, ci lascia intravedere la sua dolcezza, il suo lato più fragile e anche la sua complessità, visto che non è mai tutto buono o cattivo, tutto bianco o tutto nero».
Lei in quanto a streghe è rodata, mettiamola così: nel 2019, sempre al Coccia, è stata strega nell’opera contemporanea “Ami e Tami” di Mátti Kovler, autore ebreo-russo naturalizzato americano.
«Vero, nel doppio ruolo di madre e strega in “Ami e Tami”, ovvero “Hansel e Gretel”, una fiaba musicale che unisce arie d’opera, musical e prosa secca, solo parlata. I canoni sono quelli dell’opera lirica ma dentro sono confluite forme diverse, come piace agli americani».
E il pubblico italiano come l’ha accolta?
«L’ha amata moltissimo e, anche se era uno spettacolo pensato per i bambini, è piaciuto pure agli adulti perché aveva livelli di lettura stratificati. D’altra parte, non sarebbe possibile non divertirsi con personaggi tanto buffi».
Eppure, in Italia, la lirica è ancora associata a qualcosa di polveroso o mondano.
«Invece l’opera nasce come fenomeno popolare per la gente comune. Quella che viviamo noi – almeno fino a un po’ di tempo fa era così – è una distorsione. Per questo, credo, c’è stato un allontanamento del pubblico giovane».
E come riavvicinarlo?
«La soluzione non può certo essere deportare i ragazzi ma nemmeno abbassare il livello qualitativo. Bisogna venirsi incontro con proposte che possano appassionare, lasciando perdere l’autoreferenzialità da vecchi tromboni».
Già. Magari cercando di parlare di noi e del nostro tempo?
«Io non credo alla tradizione fine a sé stessa ma nemmeno all’attualizzazione a qualsiasi costo. Bisogna invece cercare all’interno dei testi le ragioni profonde per cui li vogliamo mettere in scena. E questo vale per l’opera e per qualsiasi testo».
Allora parliamo della tragedia greca: lei ha debuttato come attrice al Teatro Greco di Siracusa con “Le supplici” di Eschilo. Chi sono le supplici oggi?
«È fin troppo facile accostarle ai migranti sui barconi che cercano salvezza. Le supplici di Eschilo sono donne che scappano da una situazione di sopraffazione da parte degli uomini ma che chiedono asilo a un uomo illuminato, il quale le accoglie rischiando la guerra».
E infatti guerra sarà.
«“Le supplici” racconta anche lo scontro di civiltà tra Oriente e Occidente, tra la civiltà greca, più evoluta, e la barbarie».
In cui il potere era tutto degli uomini. Mi viene in mente un suo secondo lavoro, sempre per l’estate siracusana, “Le donne al Parlamento” di Aristofane, in cui le donne decidono di sostituirsi agli uomini al governo della città. Ricordo, in particolare, una scena in cui indossavate il burqa. Oggi suona particolarmente inquietante.
«Era il 2014 e la regia di Vincenzo Pirrotta voleva espressamente rendere omaggio al movimento “Se non ora quando”, un segno di solidarietà a quella realtà e a tutte le donne vittime di spersonificazione. Oggi è davvero inquietante. Però la forza di ribellarsi delle donne iraniane, la loro capacità di dibattere e di farsi sentire a livello internazionale ha smosso l’opinione pubblica creando uno zoom sull’argomento».
Riesce a essere ottimista?
«Lo sono nella vita, per natura. Poi, di fronte a certe ingiustizie, sono proprio attivista, scendo in campo, anche in trincea».
Il tema della sopraffazione maschile l’ha coinvolta anche in un’altra opera, “Donna di veleni”, scritta da Marco Podda.
«Una specie di “accabadora”, una saggia della conoscenza che custodisce i segreti della natura, alla quale il popolo si rivolge per ricevere risposte, non sempre gradite. Un’opera contemporanea ambientata nel Sud del mondo, in cui si racconta di una violenza sessuale, nel ’600. Non è cambiato molto, le forme di violenza sono sempre le stesse».
Marco Podda è anche il suo compagno: complicità, soggezione, competizione?
«Complicità. Tra noi c’è condivisione profonda, musicale e teatrale. Gli devo i miei studi musicali. Ho tanti musicisti in famiglia e ho provato a studiare vari strumenti ma è grazie a Marco se ho capito che il mio strumento è la voce».
Come si mantiene in esercizio?
«Siamo atleti del suono e occorrono costanza ed esercizio quotidiano per non perdere il tono. Ma mentre il corpo ha una massa muscolare e gli strumenti musicali hanno tasti e tutto quello che si vede, le corde vocali sono due microscopici muscoli nella gola che dobbiamo far risuonare senza poterli né vedere né toccare. Servono grande concentrazione e grande freddezza nell’uso di questo strumento. E poi il cuore, quando si va in scena».
Articolo a cura di Alessandra Bernocco